5.2. LE RAGIONI DI CLASSE DELLA DISTRUZIONE DELLA SCUOLA PUBBLICA
Restiamo sempre sul contesto italiano e leggiamo questo estratto da un’opera di Domenico Losurdo risalente al 199457:
«Se negli anni della Prima Repubblica e tanto più in quelli dell’odiata “contestazione”, le parole d’ordine relative alla scuola erano mobilità sociale, uguaglianza di chances, sapere critico, ora esse sembrano essersi rovesciate nel loro contrario: adattamento all’esistente, mercato del lavoro, riproduzione delle disuguaglianze sociali. Il finanziamento pubblico della scuola privata che, in spregio alla Costituzione, sembra profilarsi e che comunque non si è ancora realizzato solo per difficoltà di bilancio, tale finanziamento va allora ben al di là del tentativo di cattura degli ambienti cattolici: esso sta a significare la cancellazione anche formale di uno spazio pubblico di uguaglianza sottratto al mercato (finora legittimato a intervenire soltanto nella fase successiva, quella dell’inserimento nel mondo del lavoro), la cancellazione di uno spazio a cui si accede in virtù di un diritto di cui già il bambino è titolare. Dal diritto soggettivo del bambino a una scuola che gli procuri l’uguaglianza di chances e il sapere necessario ai suoi compiti di cittadino l’accento ora si sposta al diritto della famiglia di scegliere liberamente la scuola che preferisce, a seconda delle proprie preferenze ideologiche e delle proprie possibilità finanziarie: è il doppio trionfo del mercato, chiamato a determinare il contenuto dell’istruzione in base alle esigenze dell’industria e legittimato a determinare sin dall’inizio, e senza infingimenti, la collocazione sociale di ogni individuo. La figura del cittadino viene totalmente sostituita prima da quella del consumatore di servizi scolastici (che, sia chiaro, verranno offerti sul mercato non solo dalla Chiesa, ma anche, e in misura crescente, dall’industria e dalla ricchezza privata) e del venditore della sua mano d’opera o “mente d’opera” poi. […]. In Mandeville [filosofo liberale di inizio ‘700] possiamo leggere: “Il benessere e la felicità di ogni Stato e di ogni regno richiedono che le conoscenze di un lavoratore povero siano ristrette nei limiti del suo lavoro e non travalichino mai (almeno per quanto riguarda le cose concrete) il confine di ciò che interessa la sua occupazione. Quante più cose del mondo e di ciò che è estraneo al proprio lavoro o impiego conosce un pastore, un aratore o qualsiasi altro contadino, tanto meno sarà adatto a sopportare le fatiche e le durezze del proprio lavoro con gioia e soddisfazione”, e cioè tanto più sarà, per usare il linguaggio odierno, “disadattato”. Certo, l’impetuoso sviluppo della rivoluzione industriale e tecnologica esige “mano d’opera” e “menti d’opera” con una qualificazione nettamente superiore rispetto al passato, e tuttavia la scuola continua a essere pensata a partire dalle medesime preoccupazioni di stabilità sociale e di riproduzione delle esistenti differenze di classe (fatta salva, s’intende, la possibilità per la classe dominante di cooptare gli individui più capaci delle classi subalterne). Secondo Mandeville, l’equilibrio della società esige che i “poveri laboriosi” rimangano “ignoranti di tutto ciò che non riguarda direttamente il loro lavoro”. La diffusione dell’istruzione a livello popolare può solo stimolare un atteggiamento pretenzioso e ambizioso, minando il senso della tranquilla accettazione della propria condizione e del proprio destino di duro lavoro: “La conoscenza allarga e moltiplica i nostri desideri e quanto meno cose un uomo desidera, tanto più facilmente si può provvedere alle sue necessità”».
57. D. Losurdo, La seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 33-36.