21 Novembre 2024

19. I PROBLEMI IRRISOLTI DEL SOCIALISMO REALE E DEL MARXISMO-LENINISMO

Nonostante l'enormità dei meriti storici non si può chiudereMarx e Lenin gli occhi di fronte alle problematiche rimaste irrisolte per il movimento operaio nell'analisi dei problemi storico-politici del socialismo reale e del marxismo-leninismo. Partiamo dall'ambito economico. Qualche lettore giunto fin qui avrà forse storto il naso per l'affiancamento di sistemi molto diversi tra loro come quello sovietico e quello cinese post-maoista, rifiutandosi di intenderli appartenenti entrambi al filone del socialismo reale e del marxismo-leninismo. La tendenza prevalente tra i “puristi” è infatti quella di vedere il percorso intrapreso dalla Cina di Deng Xiaoping come una forma di tradimento o di revisionismo della teoria leninista. Il tema merita approfondimento e deve partire da un necessario presupposto che va ricordato: il marxismo-leninismo non va inteso come un dogma ma come uno strumento-guida teorico-analitico e pratico, utile per l'azione politica. Ciò non implica necessariamente che vi sia un percorso prestabilito e meccanicistico da seguire nel passaggio dal capitalismo al socialismo. Non si può dimenticare che nella stessa impostazione di Marx la questione della modalità con cui costruire l'economia socialista fosse rimasta per molti versi fumosa, incapace di sciogliere i nodi sulle caratteristiche concrete che dovesse assumere il percorso da intraprendere nella dittatura del proletariato. Marx peraltro immaginava tale stadio sovrastrutturale come un passaggio intermedio e di breve durata, per quanto non l'abbia approfondito troppo. Egli d'altronde partiva dal presupposto che la Rivoluzione sarebbe scoppiata nei paesi più ricchi e sviluppati, e su scala internazionale, il che avrebbe certamente facilitato una rapida sconfitta dell'imperialismo. Infine Marx ha peccato di utopismo nel porre in maniera ancor più indefinita l'orizzonte ultimo del comunismo, per la cui affermazione i tempi necessari sembrano essere talmente lunghi da porsi come una questione filosofica verso cui tendere idealmente, nella consapevolezza che anche nel caso migliore la costruzione dell'homo novus necessiti di una mutazione antropologica la quale potrebbe occorrere decenni, se non secoli. Diventa molto più concreto per noi porci il tema di come debba strutturarsi concretamente la questione del socialismo e quale nesso debba porsi con la dittatura del proletariato, della gestione dell'economia e della democrazia.

A livello economico sappiamo che Lenin ha saputo imparare molto più velocemente dai fatti rispetto al resto del gruppo dirigente bolscevico, capendo che il passaggio al socialismo non sarebbe potuto avvenire in tempi rapidi, o quanto meno che la modalità ideale per attuare questo passo fosse consequenziale ad un progressivo sviluppo delle forze produttive, accompagnato da un ferreo controllo statale dei principali rami produttivi e da un miglioramento progressivo delle condizioni di vita del proletariato. Nel compiere questo percorso Lenin aveva abbracciato la necessità della NEP, ragionando nell'ultimo periodo sull'importanza strategica della cooperazione. Lo sviluppo delle cooperative consente di mantenere un elevato tasso di democraticità e di compartecipazione dell'ambito decisionale dal basso. Il modello jugoslavo ha spinto alle estreme conseguenze questo percorso. Le criticità riscontrate in questo modello si possono riassumere però nella difficoltà di conciliarla con una pianificazione centrale della produzione, creando scompensi territoriali su cui è diventato impossibile agire per via centrale. La crisi del modello jugoslavo, esplosa a causa dei fattori nazionalisti e religiosi, fomentati ad arte dalla borghesia e dall'imperialismo, trova tra le sue cause profonde gli scompensi economici territoriali che hanno favorito alcune regioni a scapito di altre, ossia uno sviluppo interno diseguale.

La NEP, con la sua reintroduzione di elementi capitalistici, si delinea come una forma di “socialismo di mercato”, la cui misura può variare ed essere più o meno ampia, a seconda dei settori e dello spazio che lo Stato proletario decide di concedere alla borghesia. Si può considerare la NEP una forma di tradimento? Certamente ciò è stato fatto, ma in base ad una lettura schematica e dogmatica. Alla stessa maniera non si può parlare di tradimento per quanto accaduto nella Cina post-maoista, che ha sviluppato una NEP molto più marcata rispetto a quella sovietica. L'URSS ha dovuto interrompere la NEP per ragioni di politica estera e di accelerazione dello sviluppo interno, giocando sulla mobilitazione di massa in condizioni di straordinaria emergenza. La costruzione del socialismo, avvenuta negli anni '30, è stata un processo tanto grandioso quanto problematico, con non pochi scompensi dal punto di vista sociale e umano. Ciò ha portato ad un primato netto della pianificazione centralizzata, mettendo da parte l'aspetto della cooperazione e utilizzando i Soviet come cintura di trasmissione per garantire un corretto funzionamento del processo decisionale complessivo definito in maniera verticistica dal Partito. I Soviet, svuotati di potere già nell'epoca di Lenin, sono rimasti a lungo un tassello fondamentale che ha garantito la partecipazione e la correzione dei principali problemi creatisi nel vorticoso passaggio dal centro decisionale di Mosca alle applicazioni concrete finali nelle fabbriche e nei campi. Non bisogna sottovalutare l'aspetto ideologico-culturale svolto dai Soviet e dal Partito, capaci di mobilitare l'intera società sul progetto del socialismo, seppur tra contraddizioni e ambiguità. Senza questa “spinta volontaristica”, sostenuta dall'elevazione complessiva delle condizioni di vita e del livello culturale medio della classe operaia e contadina (ma anche dalla consapevolezza della minaccia esterna imperialista), il processo si sarebbe frantumato a causa dei grandi sacrifici richiesti, oltre che per il peso acquisito da un apparato burocratico non sempre adeguato. Nonostante tutti i limiti storici, l'URSS di Stalin ha dimostrato senza dubbio che la pianificazione centralizzata può funzionare, e con grande successo, anche in compresenza di una serie costante di aggressioni internazionali a bassa e alta intensità. Il vero dato di fondo su cui riflettere è che, nonostante gli enormi successi, l'URSS sia rimasta ancora nel secondo '900 un paese con profonde arretratezze economico-sociali, superabili solo con un ulteriore sviluppo delle forze produttive. Ciò è dovuto in primo luogo alle devastazioni subite dalla seconda guerra mondiale, ma è dipeso anche dalle soluzioni date da Chruščëv, le quali sono state le peggiori possibili, ripristinando aspetti di piccola proprietà capitalistica in campo agricolo senza garantirne una parallela modernizzazione, cosa invece possibile con la prosecuzione di una pianificazione più mirata. L'URSS disponeva in quella fase storica di tutto ciò che le serviva per sviluppare autonomamente le forze produttive proseguendo sul percorso indicato da Stalin. Non l'ha fatto o l'ha fatto in maniera inadeguata, mantenendo una pianificazione “azzoppata” dall'introduzione di elementi di maggiore decentralizzazione che, nonostante abbiano alleviato notevolmente nell'immediato il disagio popolare, hanno progressivamente aggravato sul lungo termine la situazione economica, facendo perdere all'URSS la sfida per la leadership mondiale a livello tecnologico. L'aspetto ideologico ha frenato moltissimo in questa fase: sia negli anni '50 che nel periodo seguente. La deviazione anzitutto analitica, e poi pratica, dal marxismo-leninismo, ha impedito al gruppo dirigente di guardare in faccia i problemi e tantomeno di affrontarli concretamente. È in questa fase che si fa largo il fenomeno della burocratizzazione spinta e della crescita delle diseguaglianze interne, fenomeni che hanno sancito un maggiore distacco tra una società sempre più acculturata ma non coinvolta nel processo decisionale e un Partito che marciva dall'interno, facendo proprio un liberalismo crescente che faceva fiorire un'economia in nero, screditando ulteriormente il sistema. Il clima di permissivismo e lassismo generalizzato ha rallentato lo sviluppo delle forze produttive portando infine alla crisi degli anni '80, nella quale si è infilato Gorbačëv con le modalità che conosciamo. Il crollo dell'URSS è insomma stato causato dall'incapacità di far fronte ad una crisi economica sulla quale non si è saputo intervenire, ma ciò è stato dovuto in ultima istanza alla sottovalutazione dello sviluppo delle forze produttive e all'incapacità di mantenere i livelli di sviluppo tecnologico dei paesi occidentali. La Cina ha ragionato lungamente sugli errori commessi dall'URSS e dal suo gruppo dirigente. Se nella prima fase dell'epoca maoista ha tentato di emulare, un po' per necessità, un po' per ingenuità ideologica, il modello staliniano (vd il “Grande Balzo in avanti”), il venir meno dei rapporti con l'URSS l'ha privata della partnership e della cooperazione economica con un paese che dal punto di vista tecnologico-scientifico era, se non all'avanguardia, abbastanza sviluppato da poter rispondere alle istanze primordiali della società cinese post-coloniale. Nonostante la vastità del territorio, delle risorse e della manodopera a disposizione, la Cina ha scelto di seguire una via diversa: una NEP molto più spinta di quella intrapresa a suo tempo da Lenin. In un mondo diviso tra due blocchi coesi tra loro, la necessità di ottenere capitali esteri, tecnologia e tecnici specializzati poteva però passare solo dall'accordo con il mondo occidentale capitalistico, data l'impossibilità di sanare i rapporti con quello socialista. Scegliere questa strada ha portato la Cina ad intraprendere la strada dell'abbandono dell'internazionalismo proletario così come inteso da Marx, Engels, Lenin e Stalin. Ciò le ha permesso di rendersi credibile agli occhi della borghesia mondiale, la quale ha probabilmente creduto al fatto che il revisionismo avviato da Deng fosse il primo passo per il ripristino completo del capitalismo nel paese. Eppure da allora ciò non è avvenuto e la Cina per 40 anni è rimasta un paese a guida comunista che continua a portare avanti una NEP che le ha già permesso di ottenere incredibili risultati economici, anche se non ancora tali da metterla sullo stesso piano dei paesi occidentali sviluppati (basta vedere a riguardo i livelli di PIL e di reddito pro-capite per rendersene conto). Che cosa farà la Cina quando avrà ritenuto di aver sviluppato a sufficienza le forze produttive? Avvierà finalmente la fase di costruzione del socialismo, come pure afferma nei propri documenti politici? Oppure cercherà di surclassare gli altri paesi capitalistici, sfruttando le contraddizioni interne del sistema del libero mercato? Se passerà alla costruzione del socialismo privilegerà la cooperazione interna o la pianificazione centralizzata? Solo il tempo ce lo dirà.

cookie