11.10. LOGICHE DELL’INDUSTRIA DISCOGRAFICA E PRASSI COMUNISTA
La musica politica non è mai stata un settore tenuto in così grande considerazione dall’industria discografica. Ciò per il semplice motivo che tale produzione ha generalmente un mercato assai ristretto e di conseguenza difficilmente permette all’azienda discografica di ottenere dei ritorni economici adeguati. Questa situazione è d’altronde variata nel tempo, mostrando una certa flessibilità dell’industria nei confronti dell’oggetto musical-politico. Questo perché il Capitale di per sé non ragiona in termini politici ma meramente economici, salvo situazioni particolari (quando cioè la politica interviene attivamente nelle più svariate maniere). Gianni Sibilla fa notare come allo stato attuale il 75% del mercato sia costituito di fatto da un «cartello» raggruppante «quattro sorelle» (Warner, Universal, EMI/Capitol e Sony/BMG) in grado di decidere l’andamento del mercato discografico influenzandone tendenze economiche e culturali. Di fronte a simili dati non si possono non ricordare le analisi marxiste classiche sulla concentrazione del capitale e quelle “critiche” francofortesi sull’industria culturale. Ancora una volta, però, tali teorie possono essere solo in parte recuperate, in quanto è indispensabile mettere in rilievo che una parte importante del mercato mondiale (il 25%) sia invece in mano a quelle che vengono chiamate “etichette indipendenti”, una realtà frastagliata che comprende microindies che pubblicano un paio di dischi l’anno ed etichette che per struttura, dimensioni e catalogo sono invece delle piccole major184. Due sono i fattori che vanno evidenziati: innanzitutto occorre definire gli obiettivi con cui tali realtà industriali svolgono la produzione; ciò vuol dire mettere in rilievo che alcune aziende possono produrre avendo come fine non il profitto in sé (non quindi un fine puramente economico) ma la diffusione di un determinato tipo di messaggio artistico, estetico, culturale o politico (tale ad esempio l’etichetta discografica militante “I dischi del sole” che tra 1963 e 1980 ha pubblicato canzonieri popolari e album della canzone impegnata italiana). Ovviamente, affinché tali realtà possano produrre disinteressandosi dell’aspetto economico (o quantomeno subordinandolo ad altri aspetti) devono esserci le condizioni adatte e il contesto necessario. Possiamo in linea di massima considerare che se le major, per la loro stessa natura di aziende multinazionali, hanno come mero fine il profitto economico e considerano quindi la musica come un prodotto da vendere, cioè come una merce, diversa è la situazione per le etichette indipendenti. Ovviamente, anche in questo settore si troveranno esempi di gestione similari, ma sarà senz’altro più facile trovare casi in cui l’etichetta nasce non con fini di lucro bensì con altri obiettivi. Sarà quindi soprattutto in queste scarse realtà che la musica politica troverà esili ripari, soprattutto nei periodi (come quello attuale) di scarsissima attrattività della categoria “Politica”. Le percentuali del mercato e la storia ci insegnano che la gran parte dell’industria discografica è stata ed è tuttora guidata però con criteri meramente economici, per cui occorrerà ribadire che in un’ottica di profitto si produce ciò che vende, cioè ciò che il mercato richiede. È vero che le major, facendo opera di “mediazione culturale” possono decidere quali tendenze e generi sostenere e quali invece frenare. Si cercherà quindi di adeguarsi il più perfettamente possibile a ciò che il mercato richiede, apportando quei piccoli cambiamenti necessari al fine di dare quelle parvenze di novità al consumatore, di cui si cerca in realtà di stimolare la necessità di nuovi bisogni indotti. Il principio che emerge per una major è l’indifferenza per cui una merce prodotta che venda bene sia un successo commerciale creato a tavolino oppure un bene artistico. Concentriamoci sul potere della macro-industria musicale, mettendo in rilievo alcune delle motivazioni che ci portano a sostenere questa visione non puramente idilliaca sulle major. Il potere di marketing e di promozione sono via via aumentati nel tempo, con un’aggressività che si è esacerbata soprattutto dagli anni ‘80, periodo in cui maggiore diventa l’importanza della comunicazione d’immagine del cantante185. La preponderanza sempre maggiore acquistata dai settori del marketing e dalla promozione, il cui unico ed evidente obiettivo è vendere dischi, ha portato negli anni alla nascita di gruppi pianificati secondo le esigenze del mercato: tale ad esempio il fenomeno delle boy band e girl band come Spice Girls e Take That, gruppi studiati a tavolino come personaggi intermediali per far breccia nel mercato, non solo musicale ma comprensivo di tutta la sfera del merchandising collegata. Sibilla ricorda come simili «gruppi di consumo» siano sempre esistiti (cita ad esempio il caso dei Monkees), ma come tali fenomeni si siano intensificati negli ultimi anni. Con gli anni il potere delle industrie discografiche è aumentato sempre più, permettendosi di controllare più o meno direttamente parte della stampa musicale e di fondamentali mezzi di diffusione come la radio e la televisione186. Tutto ciò testimonia l’enorme potere acquisito dalla moderna industria musicale. È sulla base di queste considerazioni che ci è sembrato utile recuperare in una certa misura gli studi critici di Adorno e Hokheimer. Va segnalata però un’importante differenza rispetto a tali assunti: noi oggi sappiamo che il mercato non è composto da soli uomini passivi, in quanto in passato sono sorte in contrapposizione ai “canoni” musicali egemonici delle forti sottoculture, in grado di spostare l’asse culturale e artistico. Un prodotto musicale di successo potrà quindi essere conseguenza di un adeguato bombardamento mediatico (acquisto passivo) o della libera ricerca individuale (acquisto attivo). Il primo (acquisto passivo) è il risultato dei processi dell’industria culturale, per cui l’individuo che compra è un soggetto più o meno incosciente, cioè privo di quella coscienza critica e politica che gli permetta di capire che compra un determinato disco non perché gli piaccia davvero, ma perché sia stato ingannato dalla creazione di un bisogno indotto187.
Questo individuo svolge quindi l’acquisto con superficialità, senza l’adeguata riflessione e approfondimento critico, e può essere inquadrato come l’individuo tipicamente post-moderno che si approccia alla musica in una maniera “liquida”. È quindi un soggetto estremamente debole e facilmente influenzabile, il riflesso del consumatore passivo in balìa dell’industria culturale descritto da Adorno. Nel caso invece in cui l’individuo sia dotato di una certa coscienza critica, egli difficilmente quando comprerà un disco si lascerà influenzare dalle tecniche mediatiche e di marketing dell’industria discografica, bensì prenderà maggiormente in considerazione le sue personali esigenze estetiche. Si sono verificati casi in cui le major hanno messo sotto contratto artisti impegnati. Ciò in realtà è perfettamente coerente con quanto detto in precedenza: in particolari momenti storici la politica “si vende bene”, e di conseguenza major e artista militante possono incontrarsi e accordarsi, pur tra reciproche diffidenze e polemiche. È interessante analizzare tale aspetto in quanto esso è probabilmente uno dei più contraddittori del mondo della sinistra: Manfredi ha messo in rilievo in passato come i giovani di sinistra, «i cosiddetti fruitori, sempre alla ricerca dell’autonomia dalla merce, da un lato autorizzano a credere che la canzone politica X non è merce per i contenuti che esprime, dall’altro quando si accorgono che è merce si incazzano»188. L’incapacità cioè di accettare che una canzone politica possa essere essa stessa merce è una costante che porta contemporaneamente al rifiuto dell’idea che l’artista impegnato possa trasformarsi in uno strumento del capitale. Impensabile e inaccettabile quindi l’idea che un qualsiasi Guccini entri a far parte di una qualsiasi major discografica, andando ad alimentare il sistema capitalista, svendendo così la propria immagine. In fondo non siamo distanti dal dibattito intercorso tra Adorno ed Eisler sulla necessità di avere una vera musica rivoluzionaria slegata dall’industria discografica. Arrivati a questo punto ci si troverà di fronte ad un bivio sulla funzione che deve avere la musica politica: fornire un punto di approdo genuino e sincero al “popolo di sinistra”, organizzandosi con modalità completamente “altre”, coerenti con quanto predicato negli stessi testi impegnati; oppure limitarsi a svolgere una funzione propagandistica più o meno diretta, contribuendo ad aumentare la presa di coscienza politica sociale? La vera domanda che viene da porre è questa: dal momento in cui il capitale ha questa sua contraddizione interna per cui produce tutto ciò che permette profitto, perché non approfittarne per diffondere messaggi politici (qualora ce ne sia possibilità) al fine di giungere ad una maggiore diffusione possibile di un determinato messaggio? Pensare infatti che astenendosi dall’utilizzo dell’industria discografica si possa mandarla in rovina equivale al pensiero che non andando a votare alle elezioni si possa portare alla delegittimazione del sistema democratico. Per dirla alla Marcuse: «Io sono consapevole, del tutto consapevole di far parte del sistema e cerco di cavarne il meglio possibile usando la libertà di cui dispongo per dare il mio contributo ad un miglioramento ed avanzamento dell’attuale situazione»189.
Questo individuo svolge quindi l’acquisto con superficialità, senza l’adeguata riflessione e approfondimento critico, e può essere inquadrato come l’individuo tipicamente post-moderno che si approccia alla musica in una maniera “liquida”. È quindi un soggetto estremamente debole e facilmente influenzabile, il riflesso del consumatore passivo in balìa dell’industria culturale descritto da Adorno. Nel caso invece in cui l’individuo sia dotato di una certa coscienza critica, egli difficilmente quando comprerà un disco si lascerà influenzare dalle tecniche mediatiche e di marketing dell’industria discografica, bensì prenderà maggiormente in considerazione le sue personali esigenze estetiche. Si sono verificati casi in cui le major hanno messo sotto contratto artisti impegnati. Ciò in realtà è perfettamente coerente con quanto detto in precedenza: in particolari momenti storici la politica “si vende bene”, e di conseguenza major e artista militante possono incontrarsi e accordarsi, pur tra reciproche diffidenze e polemiche. È interessante analizzare tale aspetto in quanto esso è probabilmente uno dei più contraddittori del mondo della sinistra: Manfredi ha messo in rilievo in passato come i giovani di sinistra, «i cosiddetti fruitori, sempre alla ricerca dell’autonomia dalla merce, da un lato autorizzano a credere che la canzone politica X non è merce per i contenuti che esprime, dall’altro quando si accorgono che è merce si incazzano»188. L’incapacità cioè di accettare che una canzone politica possa essere essa stessa merce è una costante che porta contemporaneamente al rifiuto dell’idea che l’artista impegnato possa trasformarsi in uno strumento del capitale. Impensabile e inaccettabile quindi l’idea che un qualsiasi Guccini entri a far parte di una qualsiasi major discografica, andando ad alimentare il sistema capitalista, svendendo così la propria immagine. In fondo non siamo distanti dal dibattito intercorso tra Adorno ed Eisler sulla necessità di avere una vera musica rivoluzionaria slegata dall’industria discografica. Arrivati a questo punto ci si troverà di fronte ad un bivio sulla funzione che deve avere la musica politica: fornire un punto di approdo genuino e sincero al “popolo di sinistra”, organizzandosi con modalità completamente “altre”, coerenti con quanto predicato negli stessi testi impegnati; oppure limitarsi a svolgere una funzione propagandistica più o meno diretta, contribuendo ad aumentare la presa di coscienza politica sociale? La vera domanda che viene da porre è questa: dal momento in cui il capitale ha questa sua contraddizione interna per cui produce tutto ciò che permette profitto, perché non approfittarne per diffondere messaggi politici (qualora ce ne sia possibilità) al fine di giungere ad una maggiore diffusione possibile di un determinato messaggio? Pensare infatti che astenendosi dall’utilizzo dell’industria discografica si possa mandarla in rovina equivale al pensiero che non andando a votare alle elezioni si possa portare alla delegittimazione del sistema democratico. Per dirla alla Marcuse: «Io sono consapevole, del tutto consapevole di far parte del sistema e cerco di cavarne il meglio possibile usando la libertà di cui dispongo per dare il mio contributo ad un miglioramento ed avanzamento dell’attuale situazione»189.
184. G. Sibilla, L’industria musicale, Carocci, Roma 2006, pp. 35-37, 51-56.
185. G. Sibilla, I linguaggi della musica pop, Strumenti Bompiani, Milano 2003, p. 5.
186. Ivi, pp. 55, 208-210, 234-238, 322. Si pensi ai rapporti tra industria discografica e televisioni come MTV.
187. La questione dei bisogni musicali indotti: «i mass-media possono tranquillamente distorcere e banalizzare, fino a far passare l’identificazione del soddisfacimento del bisogno con l’appropriazione di un oggetto di desiderio». Cit. tratta da A. Carrera, Musica e pubblico giovanile, Feltrinelli, Milano 1980, p. 14.
188. G. Manfredi, Nostra merce quotidiana, all’interno di R. Madera (a cura di), Ma non è una malattia. Canzoni e movimento giovanile, Savelli, Roma 1978, p. 38.
189. Citato in E. Dinacci, Realtà della Germania, Edizioni Scientifiche Italiane (ESI), Napoli 1970, p. 107.