11.08. IL RUOLO POLITICO DELLE SOTTOCULTURE
Sul finire del precedente capitolo abbiamo accennato al fatto che il caso descritto riguardante il rock’n’roll rappresenti un tipo di ribellione verso un particolare aspetto della sovrastruttura. È bene ribadire che questo non è l’unico tipo di ribellione attuabile tramite la popular music, altrimenti avrebbe ragione Adorno nel sostenere non solo la sostanziale innocuità della musica leggera per il sistema dominante, ma addirittura la sua necessità per il corretto funzionamento del sistema stesso. Si entra qui nell’ottica riguardante il carattere eversivo e politico di certi specifici generi musicali. Il rock’n’roll in sé non è un genere politico. Eppure si può affermare che il suo carattere culturalmente eversivo abbia giocato un forte ruolo politico. Ciò perché la sua stessa esistenza ha permesso ad una fascia ampia di società (in questo caso essenzialmente la parte giovanile) di diventare ribelle, o quanto meno di credersi tale. Il fatto che la ribellione sia tale solo verso un aspetto sovrastrutturale e non strutturale167 non implica che si debba sottovalutare la portata di un tale fenomeno. Appare difficile, infatti, che la protesta verso il sistema economico nasca dal nulla, specie nei momenti di benessere economico. Molto più probabile è invece il caso per cui la rivolta vada a spostarsi ad aspetti strutturali dopo essere partita da aspetti sovrastrutturali. Tale passaggio può essere definito in termini classici come una tipica presa di coscienza di classe da parte di un movimento di protesta. Borgna ha inquadrato perfettamente il fenomeno affermando che «una trasgressione immaginaria è già una trasgressione reale: chi crede di essere un ribelle, anche se in realtà non ha fatto nulla di trasgressivo, è già meno restio ad una ribellione vera»168. Seguendo i percorsi più diversi, il ribellismo delle culture giovanili (ma non solo giovanili) incrocerebbe l’attivismo politico. Tornando all’esempio del rock’n’roll si potrebbe citare il caso italiano, in cui il problema della devianza giovanile emerge già sul finire degli anni ‘50, con quello che può essere descritto come il fenomeno dei “teddy boys all’italiana”. Solo successivamente tale rivolta, strettamente connessa all’appropriazione di modelli culturali americani, si politicizza, tingendosi prima di antifascismo (gli scontri di Genova del 1960 in cui la metà dei centomila presenti aveva un’età compresa tra i 17 e i 25 anni) e poi di classismo operaista (con gli scontri di Piazza Statuto a Torino del 1962)169. La stessa constatazione si può fare per i successivi movimenti giovanili: la protesta politicizzata del ‘68 è anticipata da annate di intenso fervore contro-culturale170, alla cui formazione non poco hanno contribuito la musica beat e in generale la diffusione del rock nella nostra penisola. Stesso discorso si potrebbe fare per il punk, che da movimento anticonformista di rivolta solo in un secondo tempo si politicizza esplicitamente (perlomeno una sua parte) con iniziative come “Rock against racism”171. Pur non azzardando facili consequenzialismi si può pertanto sottolineare come dato inequivocabile che la presenza di una forte controcultura, ossia di un movimento o gruppo di persone i cui valori e modelli culturali e di comportamento sono molto differenti (e spesso opposti) da quelli del paradigma dominante, sia una condizione in molti casi determinante per l’avvio e la propagazione di una critica e di un’alterità di tipo politico. In altre parole è l’affermazione che spesso l’anticonformismo socio-culturale (-musicale) apre la strada a quello politico-economico. La musica in questo quadro, in quanto espressione artistico-culturale privilegiata dell’epoca contemporanea, si trova ad assumere un ruolo fondamentale nella formazione dell’identità di una determinata sottocultura. Gli studi condotti da autori come Dick Hebdige, John Clarke e Iain Chambers hanno messo in rilievo come nella formazione delle sottoculture la popular music abbia spesso svolto un ruolo cruciale, legando insieme gergo ed abbigliamento, acconciatura e gestualità. Queste teorie hanno inoltre evidenziato le relazioni che spesso emergono tra le sottoculture e le culture di classe172. Il fatto, quindi, che tali sottoculture debbano spesso le loro origini a particolari condizioni socio-economiche disagiate (con tutte le conseguenze del caso: rabbia, frustrazione, senso di ingiustizia, voglia di conflitto) spiega anche il motivo per cui tendenzialmente tali sottoculture preferiscano musiche che in qualche maniera tendano a sovvertire l’ordine culturale prevalente. È importante a riguardo che sia stato sfatato il mito di una cultura giovanile senza classi mentre pare forzato voler vedere a tutti i costi in ogni sottocultura una forma simbolica di resistenza al capitalismo173. Se le sottoculture svolgono quindi un ruolo tendenzialmente politico, si può dire che la musica diventa un fattore importantissimo per consentire la creazione stessa delle sottoculture. Per le molte ragioni fin qui elencate si deve quindi riconoscere alla musica (e in senso più ampio alla cultura e all’arte, anche nel caso in cui quest’ultima sia mercificata) la capacità di rafforzare e veicolare il disagio sociale in canali di protesta politica. Ciò comunque non significa l’abbandono di una prospettiva che tenga in giusta considerazione il condizionamento fortissimo esercitato da altri fattori, tra cui in particolare quelli economico-industriali e quelli mediatici. Soprattutto quest’ultimo è un condizionamento in certi casi talmente potente da determinare la stessa invisibilità o scomparsa di una certa sottocultura particolarmente scomoda per le gerarchie costituite. In tal senso si possono intendere le intolleranze del sistema verso alcuni movimenti che vanno oltre il sistema gerarchico e valoriale condiviso. Un esempio a riguardo possono essere i movimenti politici e religiosi eversivi che non solo si mostrano incapaci di accettare una qualsiasi integrazione nel sistema, ma addirittura si propongono di distruggerlo. Non è un caso ad esempio che il movimento giovanile italiano del ‘77 sia stato così duramente stroncato, visto che la sua apparizione arriva al culmine di un decennio di violenze politiche sempre più prive di controllo politico (tra cui l’incapacità da parte del PCI di controllare e moderare le ribellioni dei movimenti di sinistra estrema nonché di mantenere contatti con fenomeni terroristici come quello delle Brigate Rosse). Il dato definitivo che si vuole mettere in luce è quindi l’estrema variabilità con cui una certa produzione musicale, in quanto fenomeno culturale e artistico di una determinata sottocultura, sia in grado sulla base di certe condizioni particolari di superare gli ostacoli “strutturali” determinati dai rapporti di produzione e di potere dominanti. Senza l’accettazione di una siffatta equilibrata teoria non potremmo spiegare l’evolversi della produzione musicale politica nel contesto della popular music. Ignorare il peso dell’industria musicale nell’affermazione di un determinato brano o artista è impossibile, e per converso bisogna accettare che la produzione musicale è vincolata da molti processi che le impediscono una totale supremazia sugli elementi non artistici e culturali. Arrivare alla conclusione che tali ostacoli siano in realtà i veri pilastri portanti della popular music, la quale diventerebbe nient’altro che un accumulo di merci prodotte dall’industria musicale è altrettanto inaccettabile sulla semplice base dei dati storici accumulati nell’ultimo cinquantennio. Il nostro approccio è teso quindi ad accogliere il cosiddetto “principio di articolazione”, con cui autori come Moffle, Hall e Middleton tendono a riallacciarsi a quel settore del marxismo gramsciano già citato. Un principio secondo cui
«mentre gli elementi culturali non sono direttamente, eternamente o esclusivamente legati a fattori specifici economicamente determinati come la classe sociale, essi sono tuttavia determinati, in definitiva, da quei fattori attraverso l’azione di principi articolatori che sono legati alla classe sociale. Questi principi combinano elementi preesistenti in nuovi schemi e vi aggiungono nuove connotazioni»174.Questa teoria
«riserva una relativa autonomia agli elementi culturali e ideologici (per esempio, le strutture musicali o i testi delle canzoni), ma insiste anche sul fatto che gli schemi combinatori che vengono costruiti mediano effettivamente gli schemi profondi e oggettivi della formazione socio-economica, e che tale mediazione avviene nella lotta: le classi lottano per articolare l’insieme dei fattori costitutivi di un repertorio culturale in modo tale da organizzarli in termini di principi o di una serie di valori, determinati, a loro volta, dalla posizione e dagli interessi di classe nel modo di produzione prevalente»175.Una teoria quindi che sancisce la complessità della popular music, ne riconosce le possibilità, gli spazi ma anche i limiti e i condizionamenti, senza sfociare necessariamente in un qualsiasi riduzionismo incapace di coglierne ogni aspetto. Soltanto in seno ad una teoria di siffatte caratteristiche è possibile riconoscere un certo spazio alla musica politica. Se si prendesse, infatti, per buona una concezione in cui la sovrastruttura (la musica commerciale) segua obbligatoriamente la struttura (l’industria musicale con le sue logiche di mercato basate sulla necessità del profitto) dovrebbe essere assurdo concepire la possibilità di canzoni strutturate su basi estetiche anti-commerciali e contenutistiche “anti-sistema”. La loro stessa esistenza dimostra invece che un certo margine d’azione è possibile anche in un sistema nel suo complesso strutturato su determinate logiche capitaliste. Non solo canzoni “anti-sistema” ci sono state, ma hanno avuto un successo ed un’influenza enorme, particolarmente facendo riferimento al ventennio ‘60-‘70. Il paradosso è che queste stesse canzoni politiche di protesta, pur incrementando più o meno direttamente l’influenza di forze sociali e politiche “anti-sistema” rientravano nel sistema stesso, poggiando di fatto nella gran parte dei casi (salvo poche eccezioni) sull’industria discografica sia nella produzione che nella distribuzione. Questa contraddizione non ha impedito però ad un sistema di produzione di creare una merce di successo che paradossalmente contribuiva alla creazione di una coscienza “anti-sistema”. Questa contraddizione interna al capitalismo (ribadita peraltro anche da Michael Moore al termine del film-documentario The Corporation176) non era stata prevista (né forse voleva essere accettata) dai seguaci delle dottrine francofortesi (Adorno su tutti), incapaci di accettare il fatto che la popular music (in generale la macrocategoria della “musica leggera”) nonostante la sua natura industrial-commerciale di fondo possa allo stesso tempo essere culturale, popolare e democratica. Lo spiega bene Iain Chambers quando afferma che «la commercializzazione dei linguaggi musicali […] avrà certamente distrutto ogni senso di “aura” musicale […] ma ha contemporaneamente ampliato le possibilità per un intervento democratico in campo culturale», così «anche se la pop music è ovviamente di natura commerciale, questa sua forma di merce non le preclude necessariamente eventuali effetti culturali»177. Una delle conseguenze di ciò è che anche in un’ottica di profitto e di libero mercato si può diffondere un prodotto che idealmente predica la distruzione (o un superamento) del capitalismo stesso. Ovviamente tutto ciò è possibile sulla premessa che la canzone politica riesca ad avere un certo mercato, ossia sia vantaggiosa a livello economico e commerciale. Ma perché ciò accada occorre un forte circuito alternativo (sia a livello produttivo che commerciale e mediatico) controllato dai comunisti, oltre che la capacità di incidere in maniera minima culturalmente sulla società attraverso la diffusione del marxismo.
167. Si intende per ribellione verso un aspetto strutturale una situazione in cui l’individuo agisce in seguito ad una precisa presa di coscienza politica verso il modo di produzione dominante.
168. G. Borgna, Il tempo della musica, Laterza, Bari 1983, p. 39.
169. M. Grispigni, Combattenti di strada. La nascita delle culture giovanili in Italia, all’interno di A.V., Ragazzi senza tempo. Immagini, musica, conflitti delle culture giovanili, Costa & Nolan, Genova 1993, pp. 23, 25, 33-34.
170. Vedere ad esempio P. Echaurren & C. Salaris, Controcultura in Italia 1966-77. Viaggio nell’Underground, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
171. Senza elencare la sterminata bibliografia sul punk può bastare qui citare ad esempio l’autorevolezza di S. Frith, Post scriptum alla “Sociologia del rock”, Quaderni di Musica/Realtà, n° 23, 1989, pp. 151-153.
172. I. Chambers, Per un insegnamento della pop music, Quaderni di Musica/Realtà, n° 9, 1982, p. 123.
173 D. Hebdige, Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Milano 1979, cit., pp. 83, 87. Si potrebbe rispolverare le categorie aristoteliche per parlare delle sottoculture come forme di resistenza “potenziale” (ma solo in certi casi “in atto”) al capitalismo.
174. R. Middleton, Studiare la popular music, cit., p. 26.
175. Ivi, pp. 27-28.
176. M. Achbar & J. Abbott, The Corporation, 2003, che ha visto il contributo di diversi intellettuali e studiosi, tra cui Noam Chomsky, Milton Friedman, Naomi Klein e tanti altri.
177. I. Chambers, Per un insegnamento della popular music, cit., pp. 120-121.