21 Novembre 2024

11.06. IL PARADIGMA DELL'INDUSTRIA CULTURALE

Tra i contributi più importanti della Scuola di Francoforte vi è l’analisi dell’industria culturale, affrontata nell’opera Dialettica dell’illuminismo (1947) di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, che si riferiscono alle forme di cultura legate allo sviluppo dei mass-media e rivolte alle masse come, per esempio, la musica leggera o il cinema hollywoodiano. Alla base della teoria dell’industria culturale vi è l’idea che la scienza e la cultura siano espressioni socialmente e storicamente costruite e prive di reale autonomia, sviluppandosi invece, consapevolmente o inconsapevolmente, al servizio degli interessi dominanti della società, in particolare facendo riferimento ai poteri forti del capitalismo, struttura che tende a svuotare di contenuti la cultura, asservendola alle proprie esigenze economiche. Di qui l’industria culturale, la quale sarebbe quindi rappresentata dal complesso armonizzato dei mezzi di comunicazione di massa (cinema, radio, stampa, televisione), organizzati in una vera e propria industria caratterizzata da standardizzazione e organizzazione capillare del lavoro. I suoi prodotti sarebbero standardizzati e omologati sulla necessità di un consumo culturale di massa, cioè esteso a tutta la popolazione. I destinatari delle comunicazioni di massa diventano in questa concezione unicamente consumatori di prodotti preconfezionati e non viene data loro possibilità di scelta, perché i prodotti tra cui si trovano a scegliere sono di fatto tutti simili tra loro. L’individuo viene ridotto ad un essere incapace di reagire, totalmente passivo, offuscato da una falsa coscienza, narcotizzato dai media e indotto a soddisfare i falsi bisogni creati dai media stessi157. La funzione critica della cultura (e quindi, verrebbe da aggiungere: di colui che fa cultura, l’uomo) verrebbe liquidata completamente dalla fabbrica del consenso dell’industria culturale158. Nel passaggio che segue, il cinema viene interpretato come uno strumento di annullamento della personalità dei singoli e della loro capacità di opporsi al modello capitalistico di società. Adorno ritiene che lo spettatore cinematografico sia privato delle proprie facoltà creative e di pensiero, assorbito completamente dalla trama e dai personaggi. Perde quindi ogni capacità critica di immaginare mondi alternativi e finisce per considerare la realtà come il proseguimento dello spettacolo visto al cinema. Egli non decide più autonomamente, ma è in balìa di una società che lo manipola a piacere imponendogli l’adesione acritica a valori precostituiti. Anche se crede di sottrarsi, nel tempo libero, ai rigidi meccanismi produttivi, in realtà il sistema economico determina così integralmente la fabbricazione dei prodotti di svago, che ciò che consuma sono solo copie e produzioni del processo lavorativo stesso. Tale meccanismo, quindi, ben lungi dall’elevare le masse al mondo dell’arte, diventa un dispositivo per perpetuare la società esistente. Lasciamo la parola ad Adorno e Horkheimer:
«Il mondo intero è passato al setaccio dell’industria culturale. La vecchia esperienza dello spettatore cinematografico, che, uscendo sulla via, ha l’impressione di trovarsi di fronte alla continuazione dello spettacolo appena lasciato, poiché quest’ultimo vuole appunto riprodurre, nel modo più rigoroso, il mondo percettivo della vita quotidiana, è assurta a criterio della produzione. Quanto più fitta e integrale è la duplicazione degli oggetti empirici da parte delle sue tecniche, tanto più facile riesce oggi far credere che il mondo di fuori non sia che il prolungamento di quello che si viene a conoscere al cinema […]. L’impoverimento dell’immaginazione e della spontaneità del consumatore culturale dei nostri giorni non ha bisogno di essere ricondotto, in prima istanza, a meccanismi di ordine psicologico. Sono i prodotti stessi, a cominciare dal più caratteristico di tutti, il film sonoro, a paralizzare quelle facoltà per la loro stessa costituzione oggettiva. Sono fatti in modo che la loro ricezione adeguata esiga bensì prontezza di intuito, capacità di osservazione e competenza specifica, ma anche da vietare letteralmente l’attività mentale o intellettuale dello spettatore, se questi non vuole perdere i fatti che gli sgusciano rapidamente davanti […]. La violenza della società industriale opera sugli uomini una volta per tutte. I prodotti dell’industria culturale possono contare di essere consumati alacremente anche in uno stato di distrazione. Ma ciascuno di essi è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione fin dall’inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia […]. Giudizio critico e competenza specifica sono messi al bando, e bollati come la presunzione di chi si crede superiore agli altri, mentre la cultura, che è così democratica, ripartisce equamente i suoi privilegi fra tutti. Di fronte alla tregua ideologica che si è instaurata, il conformismo dei consumatori, come l’impudenza della produzione che essi tengono in vita, acquistano, per così dire, una buona coscienza. Esso si accontenta della riproduzione del sempre uguale. La monotonia del sempre uguale governa anche il rapporto al passato. La novità della fase della cultura di massa, rispetto a quella tardo-liberale, consiste appunto nell’esclusione del nuovo. La macchina ruota, se così si può dire, sur place. Mentre è già in condizione di determinare il consumo, scarta ciò che non è stato ancora sperimentato come un rischio inutile. I cineasti considerano con sospetto e diffidenza ogni manoscritto che non abbia già dietro di sé, come sua fonte, un rassicurante best-seller […]. È quasi come se un’istanza onnipresente avesse passato in rassegna il materiale e stabilito il listino ufficiale dei beni culturali, che illustra brevemente le serie disponibili. […] L’amusement, il divertimento, tutti gli ingredienti dell’industria culturale, esistevano già da tempo prima di essa. Ora vengono ripresi e manovrati dall’alto, e sollevati al livello dei tempi. L’industria culturale può vantarsi di avere realizzato con estrema energia, e di avere eretto a principio, la trasposizione – che era stata spesso, prima di essa, goffa e maldestra – dell’arte nella sfera del consumo, di avere liberato l’amusement delle sue ingenuità più petulanti e fastidiose e di avere migliorato la confezione delle merci. Man mano che diventava più totale e più totalitaria, e che obbligava più spietatamente ogni outsider a dichiarare fallimento o ad entrare nella corporazione, essa si faceva, nello stesso tempo, più fine e più sostenuta […]. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione: non in virtù del suo contesto oggettivo (che si squaglia, appena si rivolge alla facoltà pensante), ma attraverso una successione di segnali. Ogni connessione logica, che richieda, per essere afferrata, un certo respiro intellettuale, è scrupolosamente evitata. […] L’affinità originaria del mondo degli affari e di quello dell’amusement si rivela nel significato proprio di quest’ultimo: che non è altro che l’apologia della società. Divertirsi significa essere d’accordo. […] Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare la sofferenza anche là dove viene esposta e messa in mostra. Alla base del divertimento c’è un sentimento di impotenza. Esso è, effettivamente, una fuga, ma non già come pretende di essere, una fuga dalla cattiva realtà, ma dall’ultima velleità di resistenza che essa può avere ancora lasciato sopravvivere negli individui. La liberazione promessa dall’amusement è quella dal pensiero come negazione»159.
La logica dell’industria culturale, pur avendo i suoi sicuri punti di forza, appare debole per l’appiattimento esasperato della società in una massa passiva in cui non sembrerebbe esserci spazio di azione lasciato all’individuo ricevente il messaggio mediale. L’ottica è insomma quella del superato modello stimolo-risposta, in un rapporto di causalità stretto e consequenziale che non pare considerare le variabili intervenienti nel processo di comunicazione. Oltretutto, se tale dottrina fosse portata alle estreme conseguenze non si comprenderebbe la diversificazione dei prodotti culturali avvenuta con il tempo, né tantomeno la stessa possibilità della nascita di una qualsiasi Scuola di Francoforte. La nascita, l’esistenza e il successo di tale Scuola testimonia da sola che la cultura, se ben indirizzata, è in grado di costruire una coscienza critica capace di afferrare tutte le logiche calate dall’alto e di reagire ad esse. Non si possono in ogni caso accettare i modelli struttural-funzionalisti e la loro prospettiva di “usi e gratificazioni”, in base a cui la funzione dei media verrebbe assimilata all’uso strumentale che il pubblico farebbe dei mezzi di comunicazione di massa, al fine di soddisfare i propri bisogni e di riceverne così una gratificazione160. Questa teoria appare opposta a quella francofortese, e il suo difetto più evidente è la completa responsabilizzazione e maturazione della società nel suo complesso, che avrebbe un tale livello culturale e coscienzioso da non farsi minimamente influenzare dalla forza dei media. Si ragiona sulla base di una società composta unicamente da individui istruiti, colti, dotati di una precisa coscienza critica e capaci di ragionare e farsi una qualsiasi opinione senza la minima influenza da parte dei media. Un individuo di tale tipo è certamente possibile, lungi dall’essere completamente astratto e idealizzato, ma è facile constatare come sia evidentemente minoritario nell’attuale società, caratterizzata per di più da una svalutazione di tutti questi elementi, come abbiamo già visto più volte.
157. Vd H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit.
158. Riguardo alla Scuola di Francoforte in generale ci si è rifatti a L. Paccagnella, Sociologia della comunicazione, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 114-117 e a F. Colombo, Introduzione allo studio dei media. I mezzi di comunicazione fra tecnologia e cultura, Carocci, Roma 2003, pp. 73-83.
159. M. Horkheimer & T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, pp. 132-134; 141-143.
160. L. Paccagnella, Sociologia della comunicazione, cit., pp.101-107, 110-114.

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