21 Novembre 2024

10.1. LA PUBBLICITÀ STRUMENTO DI EDUCAZIONE AL CAPITALISMO

Ha scritto il grande scrittore Eduardo Galeano124:
«le masse dei consumatori ricevono ordini in una lingua universale: la pubblicità è riuscita a fare quello che l’Esperanto volle ma non riuscì. Chiunque, in qualunque posto, capisce i messaggi che il televisore trasmette. Nell’ultimo quarto di secolo, nel mondo, le spese per la pubblicità sono raddoppiate. Grazie questi massicci investimenti, i bambini poveri bevono sempre di più Coca Cola e sempre meno latte, ed il tempo dedicato all’ozio sta diventando tempo per il consumo obbligatorio. Tempo libero, tempo prigioniero: le case molto povere non hanno un letto, ma hanno un televisore, ed il televisore ha la parola. Comprato a rate, quel piccolo animale dimostra la vocazione democratica del progresso: non ascolta nessuno, ma parla a tutti. Poveri e ricchi conoscono, così, le virtù delle automobili ultimo modello, e poveri e ricchi vengono a sapere dei vantaggiosi tassi di interesse che offre questa o quella banca. Gli esperti sanno trasformare le merci in un magico sistema contro la solitudine. Le cose hanno attributi umani: accarezzano, accompagnano, comprendono, aiutano, il profumo ti bacia e l’auto è l’amico che non ti tradisce mai. La cultura del consumo ha fatto della solitudine il più lucroso dei mercati. I vuoti nel petto si riempiono colmandoli di cose, o sognando di farlo. E le cose non solo possono abbracciare: possono essere anche simboli di ascesa sociale, salvacondotti per attraversare le dogane della società divisa in classi, chiavi che aprono le porte proibite. Quanto più sono esclusive, meglio è: le cose ti selezionano e ti salvano dell’anonimato moltitudinario. La pubblicità non informa sul prodotto che vende, o raramente lo fa. Quello è il meno. La sua funzione principale consiste nel compensare frustrazioni ed alimentare fantasie: Lei, chi vuole diventare acquistando questo dopobarba? Il criminologo Anthony Platt ha osservato che i delitti della strada non sono solamente frutto dell’estrema povertà. Sono anche frutto dell’etica individualista. L’ossessione sociale del successo, dice Platt, incide decisivamente sull’appropriazione illegale delle cose. Io ho sempre sentito dire che il denaro non fa la felicità, ma qualunque telespettatore povero ha molte ragioni per credere che il denaro produca qualcosa di molto simile tanto che la differenza è tema da specialisti […]. Il mondo intero tende a trasformarsi in un gran schermo televisivo, dove le cose si guardano ma non si toccano. Le merci in offerta invadono e privatizzano gli spazi pubblici. Le stazioni di autobus e treni, che fino a fa poco erano spazi d’incontro, si stanno trasformando in spazi di esibizione commerciale. Lo shopping center, o shopping mall, vetrata di tutte le vetrate, impone la sua presenza dominante. Le moltitudini accorrono, in pellegrinaggio, in questo gran tempio delle messe del consumo. La maggioranza dei devoti contempla, in estasi, le cose che le loro tasche non possono pagare, mentre la minoranza che compra, si sottomette al bombardamento dell’incessante ed estenuante offerta. La folla che sale e scende per le scale mobili, viaggia per il mondo: i manichini vestono come a Milano o Parigi e le macchine suonano come a Chicago, e per vedere e sentire non è necessario pagare alcun biglietto. I turisti venuti dai paesi dell’interno, o dalle città che non hanno ancora meritato queste benedizioni della felicità moderna, posano per la foto, ai piedi delle più famose marche internazionali, come prima posavano nella piazza di paese, ai piedi della statua dell’eccelso. Beatriz Solano ha osservato che gli abitanti dei quartieri suburbani accorrono al center, allo shopping center, come prima accorrevano al centro. La tradizionale passeggiata di fine settimana al centro della città, tende ad essere sostituita con l’escursione a questi centri urbani. Lavati, stirati e pettinati, vestiti coi i loro migliori abiti, i visitatori vengono ad una festa dove non sono invitati, ma possono curiosare. Famiglie intere intraprendono il viaggio nella capsula spaziale che percorre l’universo del consumo, dove l’estetica del mercato ha progettato un paesaggio allucinante di modelli, marche ed etichette. La cultura del consumo, cultura della cosa effimera, condanna tutto al disuso mediatico. Tutto cambia al ritmo vertiginoso della moda, posta al servizio della necessità di vendere. Le cose invecchiano in un lampo, per essere rimpiazzate da altre cose di vita fugace. Oggi, dove l’unica cosa che rimane è l’insicurezza, le merci, fabbricate per non durare, risultano tanto volatili come il capitale che li finanzia ed il lavoro che li genera. Il denaro vola alla velocità della luce: ieri stava là, oggi sta qui, domani chi sa, ed ogni lavoratore è un potenziale disoccupato. Paradossalmente, gli shopping center, regni della fugacità, offrono la più grande illusione di sicurezza. Essi resistono fuori del tempo, senza età e senza radice, senza notte e senza giorno, senza memoria, ed esistono fuori dello spazio, oltre le turbolenze della pericolosa realtà del mondo. I padroni del mondo usano il mondo come se si potesse buttare via: una merce di vita effimera che si esaurisce come si esauriscono, appena nate, le immagini che spara la mitragliatrice della televisione, le mode e gli idoli che la pubblicità lancia, senza tregua, sul mercato».
124. E. Galeano, L'impero del consumo, Vulcano.wordpress.com-CCDP, 12 maggio 2010.

cookie