4.3. LA FALSA RETORICA DEL LEADER NON-VIOLENTO
«Durante la visita che il Dalai Lama fece a Londra nel 1992, fu accusato dalla maggior organizzazione buddista britannica di essere un “dittatore spietato” ed un “oppressore della libertà religiosa”. Si tratta di un “Papa” con pochi discepoli religiosi, ma molti adepti politici».
(Silas e Collon)30
Chiudiamo questa rassegna sul Tibet smontando l'assioma presente nell'immagine di un Dalai Lama “santo” che oppone la non-violenza alla dura oppressione cinese.
«Ho sempre condotto la battaglia tibetana per la libertà secondo i principi della non-violenza», afferma il Dalai Lama. Ben diverso è il quadro tracciato da un funzionario della CIA, che riporta in questi termini il punto di vista espresso dal suo eroe: «Se non c'è alternativa alla violenza, la violenza è consentita». Tanto più che occorre saper distinguere tra «metodo» e «motivazione»: «Nella resistenza tibetana contro la Cina il metodo era l'uccisione, ma la motivazione era la compassione, e ciò giustificava il ricorso alla violenza». In modo analogo, confinando cioè la non-violenza nella sfera delle buone intenzioni, il Dalai Lama giustifica e anzi celebra la partecipazione degli USA alla seconda guerra mondiale e alla guerra di Corea, allorché si trattava di «proteggere democrazia e libertà». Un ragionamento machiavellico da statista più che da leader religioso portavoce della non-violenza. Il Dalai Lama sapeva dall'inizio dell'appoggio della CIA alla lotta armata del popolo tibetano contro le autorità dello Stato cinese. A quanto pare ha approvato. Tutto inizia con impegni segreti presi dagli USA col legittimo governo tibetano, dunque col Dalai Lama in persona, dal 1951 al 1956, dopo la brutale occupazione cinese del Tibet nel 1950. La storia è narrata dai giornalisti investigativi della Sueddeutsche Zeitung. I primi contatti risalgono a un anno dopo l'annessione cinese, e hanno luogo tra il Dalai Lama e agenti americani attraverso l'ambasciata Usa a New Delhi e il consolato a Calcutta. Il Pentagono assicura al Dalai Lama in persona, scrive la Sueddeutsche, armi leggere e aiuti finanziari al movimento di resistenza. Nell'estate 1956 l'operazione della CIA in Tibet diventa un dossier a sé, che assume il nome di “ST Circus”. Si propone, dicono carte segrete e testimonianze di veterani della CIA come John Kenneth Knaus, di «fare il possibile per tenere in vita il concetto di un Tibet autonomo» e «sviluppare la resistenza contro sviluppi in Tibet guidati dalla Cina comunista». Washington si impegna ad addestrare guerriglieri tibetani nella lotta armata contro l'occupante cinese, ad armarli, e anche a versare 180 mila dollari l'anno, scrive il quotidiano liberal di Monaco citando un presunto dossier segreto, «somme dichiarate come aiuto finanziario al Dalai Lama». Ai memorandum della CIA seguono i fatti. I guerriglieri tibetani sono addestrati in campi segreti prima in isole dei mari del sud, poi a Camp Hale sulle montagne Rocciose, dove le condizioni climatiche sono simili a quelle tibetane.
I contatti col Dalai Lama e col suo seguito continuano anche durante l'avventurosa fuga dal Tibet a Dharamsala, in India. I guerriglieri addestrati dalla CIA saranno in tutto 85 mila, inquadrati nell'organizzazione “Chushi Gangdrug”. Ufficiali e istruttori tibetani formati dagli statunitensi vengono paracadutati da vecchi bombardieri Boeing B17 in volo a bassa quota e senza contrassegni sul Tibet occupato. I guerriglieri attaccano in piccoli gruppi.
«Uccidevamo volentieri quanti più cinesi possibile, e a differenza di quando macellavamo bestie per cibarci, non ci veniva di dire preghiere per la loro morte», ricorda un veterano della resistenza tibetana. L'operazione CIA col Dalai Lama comincia negli anni Cinquanta, ma fallisce in maniera evidente. Il motivo lo spiega lo storico Tom Grunfeld: «I dissensi in Tibet erano insufficientemente diffusi per sostenere una lunga, aperta ribellione»; anzi, «anche i critici più aspri della Cina sono costretti a riconoscere che non c'è mai stata una scarsità di volontari tibetani» per l'Esercito popolare di liberazione. In conclusione: i commando infiltrati dall'India «trovano scarso appoggio nella popolazione locale». Il colpo di grazia al progetto insurrezionale viene dato dalla necessità della normalizzazione dei rapporti USA-Cina negli anni '70, a seguito del viaggio segreto dell'allora Segretario di Stato Usa Henry Kissinger a Pechino. La causa tibetana è sacrificata alla realpolitik delle due potenze.
Grande delusione per il Dalai Lama: «Rammaricato egli osservò che nel 1974 Washington aveva cancellato il suo sostegno al programma politico e paramilitare». Molti guerriglieri tibetani si sparano in bocca o si tagliano la gola o le vene piuttosto che cadere nelle mani del Guabuo, il KGB cinese. Altri, mastini della guerra, fuggono a sud e si arruolano nei migliori corpi speciali indiani. Altra pagina interessante che mostra il Dalai Lama calarsi nei panni di mero politico assai poco non-violento è questa: se aprite il Corriere della Sera del 15 maggio 1998 trovate un articolo il cui titolo recita: Il Dalai Lama si schiera con New Delhi: “Anche loro hanno diritto all'atomica”, al fine di controbilanciare – viene poi chiarito – l'arsenale nucleare cinese; ovviamente si tace sul ben più poderoso arsenale nucleare statunitense, per difendersi dal quale è pensato il modesto arsenale nucleare cinese.
La logica è quella della guerra fredda e prevede il pieno sostegno politico all'alleato indiano. Non a caso i guerriglieri tibetani hanno combattuto sotto la direzione dell'esercito di New Delhi nel corso della breve guerra di frontiera sino-indiana del 1962 e poi nel corso della guerra indo-pakistana di alcuni anni dopo. Nel giugno 1972 il Dalai Lama, assieme al generale indiano Sujan Singh Uban, passa in rassegna e arringa la Special Frontier Force, al cui impiego nella guerra contro il Pakistan aveva dato il consenso qualche mese prima.
È evidente: la costruzione del Dalai Lama come leader dell'ideologia non-violenta è pura retorica, interamente funzionale agli obiettivi politici statunitensi, che non a caso danno pieno sostegno politico, economico, mediatico e militare a questo spregiudicato leader religioso in funzione prettamente anti-cinese e anti-comunista.31
«Ho sempre condotto la battaglia tibetana per la libertà secondo i principi della non-violenza», afferma il Dalai Lama. Ben diverso è il quadro tracciato da un funzionario della CIA, che riporta in questi termini il punto di vista espresso dal suo eroe: «Se non c'è alternativa alla violenza, la violenza è consentita». Tanto più che occorre saper distinguere tra «metodo» e «motivazione»: «Nella resistenza tibetana contro la Cina il metodo era l'uccisione, ma la motivazione era la compassione, e ciò giustificava il ricorso alla violenza». In modo analogo, confinando cioè la non-violenza nella sfera delle buone intenzioni, il Dalai Lama giustifica e anzi celebra la partecipazione degli USA alla seconda guerra mondiale e alla guerra di Corea, allorché si trattava di «proteggere democrazia e libertà». Un ragionamento machiavellico da statista più che da leader religioso portavoce della non-violenza. Il Dalai Lama sapeva dall'inizio dell'appoggio della CIA alla lotta armata del popolo tibetano contro le autorità dello Stato cinese. A quanto pare ha approvato. Tutto inizia con impegni segreti presi dagli USA col legittimo governo tibetano, dunque col Dalai Lama in persona, dal 1951 al 1956, dopo la brutale occupazione cinese del Tibet nel 1950. La storia è narrata dai giornalisti investigativi della Sueddeutsche Zeitung. I primi contatti risalgono a un anno dopo l'annessione cinese, e hanno luogo tra il Dalai Lama e agenti americani attraverso l'ambasciata Usa a New Delhi e il consolato a Calcutta. Il Pentagono assicura al Dalai Lama in persona, scrive la Sueddeutsche, armi leggere e aiuti finanziari al movimento di resistenza. Nell'estate 1956 l'operazione della CIA in Tibet diventa un dossier a sé, che assume il nome di “ST Circus”. Si propone, dicono carte segrete e testimonianze di veterani della CIA come John Kenneth Knaus, di «fare il possibile per tenere in vita il concetto di un Tibet autonomo» e «sviluppare la resistenza contro sviluppi in Tibet guidati dalla Cina comunista». Washington si impegna ad addestrare guerriglieri tibetani nella lotta armata contro l'occupante cinese, ad armarli, e anche a versare 180 mila dollari l'anno, scrive il quotidiano liberal di Monaco citando un presunto dossier segreto, «somme dichiarate come aiuto finanziario al Dalai Lama». Ai memorandum della CIA seguono i fatti. I guerriglieri tibetani sono addestrati in campi segreti prima in isole dei mari del sud, poi a Camp Hale sulle montagne Rocciose, dove le condizioni climatiche sono simili a quelle tibetane.
I contatti col Dalai Lama e col suo seguito continuano anche durante l'avventurosa fuga dal Tibet a Dharamsala, in India. I guerriglieri addestrati dalla CIA saranno in tutto 85 mila, inquadrati nell'organizzazione “Chushi Gangdrug”. Ufficiali e istruttori tibetani formati dagli statunitensi vengono paracadutati da vecchi bombardieri Boeing B17 in volo a bassa quota e senza contrassegni sul Tibet occupato. I guerriglieri attaccano in piccoli gruppi.
«Uccidevamo volentieri quanti più cinesi possibile, e a differenza di quando macellavamo bestie per cibarci, non ci veniva di dire preghiere per la loro morte», ricorda un veterano della resistenza tibetana. L'operazione CIA col Dalai Lama comincia negli anni Cinquanta, ma fallisce in maniera evidente. Il motivo lo spiega lo storico Tom Grunfeld: «I dissensi in Tibet erano insufficientemente diffusi per sostenere una lunga, aperta ribellione»; anzi, «anche i critici più aspri della Cina sono costretti a riconoscere che non c'è mai stata una scarsità di volontari tibetani» per l'Esercito popolare di liberazione. In conclusione: i commando infiltrati dall'India «trovano scarso appoggio nella popolazione locale». Il colpo di grazia al progetto insurrezionale viene dato dalla necessità della normalizzazione dei rapporti USA-Cina negli anni '70, a seguito del viaggio segreto dell'allora Segretario di Stato Usa Henry Kissinger a Pechino. La causa tibetana è sacrificata alla realpolitik delle due potenze.
Grande delusione per il Dalai Lama: «Rammaricato egli osservò che nel 1974 Washington aveva cancellato il suo sostegno al programma politico e paramilitare». Molti guerriglieri tibetani si sparano in bocca o si tagliano la gola o le vene piuttosto che cadere nelle mani del Guabuo, il KGB cinese. Altri, mastini della guerra, fuggono a sud e si arruolano nei migliori corpi speciali indiani. Altra pagina interessante che mostra il Dalai Lama calarsi nei panni di mero politico assai poco non-violento è questa: se aprite il Corriere della Sera del 15 maggio 1998 trovate un articolo il cui titolo recita: Il Dalai Lama si schiera con New Delhi: “Anche loro hanno diritto all'atomica”, al fine di controbilanciare – viene poi chiarito – l'arsenale nucleare cinese; ovviamente si tace sul ben più poderoso arsenale nucleare statunitense, per difendersi dal quale è pensato il modesto arsenale nucleare cinese.
La logica è quella della guerra fredda e prevede il pieno sostegno politico all'alleato indiano. Non a caso i guerriglieri tibetani hanno combattuto sotto la direzione dell'esercito di New Delhi nel corso della breve guerra di frontiera sino-indiana del 1962 e poi nel corso della guerra indo-pakistana di alcuni anni dopo. Nel giugno 1972 il Dalai Lama, assieme al generale indiano Sujan Singh Uban, passa in rassegna e arringa la Special Frontier Force, al cui impiego nella guerra contro il Pakistan aveva dato il consenso qualche mese prima.
È evidente: la costruzione del Dalai Lama come leader dell'ideologia non-violenta è pura retorica, interamente funzionale agli obiettivi politici statunitensi, che non a caso danno pieno sostegno politico, economico, mediatico e militare a questo spregiudicato leader religioso in funzione prettamente anti-cinese e anti-comunista.31
30. M. Milas & M. Collon, Tibet, cit.
31. Fonti usate: A. Tarquini, Tibet, svelati dossier sulla guerriglia “I soldi della Cia al Dalai Lama”, La Repubblica (web), 9 giugno 2012; D. Losurdo, La non-violenza, cit., pp.196-198.