04. LE MENZOGNE SUL TIBET
Quando si parla di Cina salta sempre fuori qualche “intellettuale” a ricordare l'“invasione” del Tibet, usata dall'Occidente capitalista per tacciare Mao di imperialismo e di scarso rispetto dei diritti umani. Lasciamo la parola a Milas e Collon25:
«In realtà a partire dal XII secolo, con l’impero mongolo, il Tibet è stato annesso alla Cina. A partire dal secolo XVII il Tibet è diventato una delle diciotto province dell’impero cinese e ogni Dalai-lama riceveva la sua garanzia di legittimazione dall’imperatore cinese. Alla fine del XIX secolo l’impero britannico ha invaso il Tibet. Il Dalai Lama ha approfittato dell’occasione per rivendicare l’indipendenza tibetana. Questa richiesta, però, non venne presa in considerazione da nessun partito cinese né da alcun paese del mondo. Nel 1949, anche il Dipartimento di Stato USA considerava il Tibet (e Taiwan) come parte integrante della Cina, ma cambia tutto quando la Cina diventa un paese socialista con Mao Tse-tung. Era lo stesso Dipartimento di Stato, allora, che scriveva: “Il Tibet diventa una zona strategica ideologicamente importante. L’indipendenza del Tibet può servire come lotta contro il comunismo, è nostro interesse riconoscerlo come paese indipendente anziché come parte integrante della Cina”. Ma aggiunge: “La situazione cambia se si crea un governo in esilio. In questo caso il nostro interesse sarà di sostenere l’indipendenza del Tibet senza riconoscerla. Il riconoscimento dell’indipendenza del Tibet non è la questione veramente importante. Si tratta della nostra strategia contro la Cina”».Ciò ha spinto gli USA a sostenere attivamente il movimento tibetano:
«Tra il 1959 e il 1972, la CIA ha dato 1,7 milioni di dollari al 'Governo Tibetano in esilio' e 180.000 dollari annuali direttamente al Dalai-lama. Per molto tempo egli lo ha negato, ma finalmente negli anni Ottanta, ha finito col riconoscerlo pubblicamente. Da allora ad oggi i finanziamenti sono stati più discreti, attraverso organizzazioni di copertura come il National Endowment for Democracy (NED), il Tibet Fund, lo State Department’s Bureau of Democracy... Un altro dei suoi principali patrocinatori è George Soros, attraverso lo Albert Einstein Institution, che continua ad essere diretto dall’ex colonnello Robert Helvey dei servizi segreti USA».Come funziona la vita nel Tibet pre-rivoluzionario? È un paese veramente libero?
«La dottrina imponeva la superiorità del ricco signore e l’inferiorità del contadino miserabile, del monaco inferiore, dello schiavo e della donna. Si presentava quest’ordine come il risultato ineluttabile della successione karmica, prodotto della virtù dei ricchi e delle loro vite passate. In realtà, questa ideologia giustificava un ordine sociale di tipo feudale: i servi dovevano lavorare le terre del signore o del monastero, gratuitamente e per tutta la vita. Qualunque azione era un pretesto per imporre tasse elevate: matrimonio, funerale, nascita, feste religiose, il possesso di un animale, piantare un albero, il ballo, e persino entrare o uscire di prigione. Questi debiti potevano essere passati da padre in figlio e proseguire nelle generazioni successive, e se i debiti non venivano pagati, i debitori erano ridotti in schiavitù. I fuggitivi e i ladri erano perseguiti da un piccolo esercito professionista. Le punizioni preferite erano il taglio della lingua o accecare un occhio, il taglio del tendine del ginocchio, ecc. Tutte queste torture sono state proibite nel 1951 mediante l’applicazione delle riforme portate da Pechino».Nonostante in quell'anno sia firmato un Accordo per la Liberazione Pacifica del Tibet tra Pechino e il governo locale tibetano,
«nel 1956 scoppiò una rivolta armata, iniziata dal monastero di Litang nella provincia dello Sichuan. Dopo alcune scaramucce con l’esercito rosso, una parte dell’élite tibetana dello Sichuan si è rifugiata in Tibet spargendo voci del “terrore rosso”. La CIA finanziò e appoggiò la rivolta fin dall’inizio. Avevano addestrato milizie armate nel Colorado, le avevano poi lanciate in Tibet e le avevano rifornite per via aerea. I fatti di sangue di quest’epoca erano in realtà la repressione di una lotta di classi privilegiate organizzate dalla CIA. Nel 1959, le voci secondo le quali “i cinesi volevano sequestrare il Dalai-lama” provocò una grande manifestazione a Lhasa (anche se la CIA, in realtà, aveva già organizzato la fuga del Dalai-lama in India). I manifestanti linciarono alcuni ufficiali tibetani e l’esercito rosso schiacciò la ribellione. Quanti morti ci furono a Lhasa? Secondo i testimoni raccolti dal politologo pro-indipendentista Henry Bradsher, 3.000. Nel 1959 il Dalai-lama pretendeva che fossero 65.000, e aumentò la cifra fino ad arrivare a 87.000. Il problema è che allora, Lhasa aveva una popolazione massima di 40.000 abitanti. Di certo dopo la ribellione 10.000 tibetani furono condannati a lavori forzati per 8 mesi, e impiegati nella costruzione della prima centrale elettrica di Ngchen. Le cifre fantasiose circa il “genocidio” hanno continuato a circolare».La propaganda occidentale ha sostenuto a lungo la cifra di oltre un milione di morti.
Un dato smentito dalla
«piramide di età della popolazione tibetana. Si stima che nel 1953 la popolazione tibetana (tanto in Tibet che nelle province limitrofe) raggiungeva al massimo 2,5 milioni di abitanti. Se avessero assassinato 1,2 milioni di tibetani tra il 1951 e l’inizio degli anni '70, una gran parte del Tibet sarebbe rimasta spopolata. Inoltre, ci sarebbe stato un grande squilibrio tra uomini e donne. I demografi, invece, non rilevano nessuna anomalia nella popolazione tibetana, che non ha mai smesso di aumentare. Attualmente in Cina si contano quasi 6 milioni di tibetani. L’unica persona che ha avuto accesso agli archivi del governo tibetano in esilio è Patrick French, quando dirigeva la campagna “Free Tibet” a Londra. Con i documenti in mano, French arrivò alla conclusione che le prove del “genocidio tibetano” erano state falsificate. Le battaglie del 1959 erano state contabilizzate varie volte e le cifre dei morti erano state aggiunte a margine in seguito. French denunciò questa falsificazione, ma la cifra di 1,2 milioni di morti ha continuato a fare il giro del mondo».Per quel che riguarda la libertà religiosa
«tra il 1966 e il 1976, tutte le pratiche religiose vennero proibite, non solo in Tibet, ma in tutto il territorio cinese. Si chiusero i monasteri e i monaci furono obbligati a vivere con le loro famiglie d’origine dedicandosi al lavoro produttivo, essenzialmente agricolo. Non tutti i monasteri venero distrutti, ma molti oggetti di culto furono spazzati via dalle guardie rosse (giovani intellettuali tibetani aderenti al movimento rivoluzionario cinese). Quando la situazione degenerò gravemente (eccessi, castighi arbitrari), l’esercito rosso s’interpose e restaurò l’ordine sociale ed economico. Il governo cinese ammise gli errori che aveva commesso in questo periodo e cominciò a finanziare la restaurazione di tutto il patrimonio religioso del Tibet. I monasteri tornarono a riempirsi di monaci. Attualmente, in Cina vi sono più di 2.000 monasteri tibetani restaurati e in funzione».Da allora il Tibet è diventato una regione autonoma:
«dagli anni '80 la cultura e la religione tibetana si praticano liberamente, i bambini sono bilingue e sono stati aperti istituti di tibetologia. I monasteri si sono riempiti di lama, compresi i bambini. La lingua tibetana è parlata e scritta da molte più persone che prima della rivoluzione. Nel Tibet esiste un centinaio di riviste letterarie. Anche la rivista Foreign Office, vicina al Dipartimento di Stato degli USA, ha riconosciuto che la pratica del bilinguismo era usata dal 60/70% dei funzionari di etnia tibetana. Inoltre, la cultura tibetana ha avuto nuove prospettive dallo sviluppo nel resto della Cina, specialmente negli ambiti della lingua, della letteratura, degli studi sulla vita quotidiana e dell’architettura tradizionale. In Cina sono stati pubblicati importanti collezioni di libri, giornali e riviste in lingua tibetana. Ci sono molti editoriali dedicati a promozioni di lingua tibetana, non solo in Tibet ma anche a Pechino. La realtà dimostra che l’idea del “genocidio culturale” non è altro che un mito della propaganda politica».
25. M. Milas & M. Collon, Tibet: vero o falso?, Rebelion.org-CCDP, 29 giugno 2008.