F.07. COME IL CAPITALISTA MASSIMIZZA LO SFRUTTAMENTO E I SUOI PROFITTI
«La causa ultima di ogni vera crisi resta sempre la miseria e la limitatezza del consumo delle masse rispetto alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive». (Karl Marx)Ora che sono chiari i concetti generali possiamo approfondire lo studio del capitalismo (ed in particolare della produzione di plusvalore) entrando, insieme a Marx, nel segreto laboratorio della produzione, sulla cui soglia sta scritto “divieto di accesso ai non addetti ai lavori”. Il punto di partenza è la giornata lavorativa, che è composta dal lavoro necessario (alla riproduzione del salario) e dal pluslavoro (il cui valore prodotto va esclusivamente al capitalista). Abbiamo già visto, infatti, come l’operaio durante la giornata produca più valore di quello che è il suo compenso, perciò se per una parte della giornata lavora per sé, dopo aver lavorato abbastanza da ripagarsi il salario, per la restante parte della giornata lavora per il capitalista. Definiamo ora il saggio di sfruttamento (ss, detto anche saggio di plusvalore) come il rapporto tra plusvalore prodotto e capitale variabile investito (valore del salario): ss = pv / V
L’ingordo capitalista tenderà in tutti i modi ad accrescere l’accumulazione di capitale, aumentando la produzione di profitto (e quindi incrementando ss). Questo può avvenire in due modi (spesso combinati fra loro): allungando la giornata lavorativa (ottenendo un plusvalore assoluto) oppure riducendo il lavoro necessario (plusvalore relativo, ottenuto con salari più bassi). In entrambi i casi è importante tenere conto delle condizioni storiche e dei rapporti di forza all’interno della lotta di classe tra capitalisti e operai. Marx definisce la subordinazione della forza-lavoro al capitale come sussunzione formale (allungamento del tempo di lavoro) o sussunzione reale (trasformazione delle condizioni di lavoro). Per la produzione di plusvalore assoluto il capitalista prolunga la giornata di lavoro, ma questo metodo può andar bene fino ad un certo punto, quando non incontra un limite. La giornata lavorativa ovviamente non può andare oltre le 24 ore, dalle quali si deve sottrarre un minimo di tempo necessario per soddisfare i bisogni dell’operaio quali dormire, mangiare, ecc. Per superare il limite del pv assoluto, il capitalista potrà estrarre maggior plusvalore relativo riducendo il lavoro necessario rispetto al pluslavoro (a parità di lunghezza della giornata lavorativa). Questo vuol dire una sola cosa: abbassamento del salario!
Come abbiamo visto, il salario comprende i costi di mantenimento del lavoratore. Il suo valore varia in base a diversi fattori, ad esempio per la legge della domanda e dell’offerta, oppure in base ai rapporti di forza e alle conquiste dei lavoratori ottenute tramite le lotte sindacali. C’è un ulteriore fattore che permette l’abbassamento del salario. Abbiamo già accennato che, con l’aumento della produttività, le merci (comprese quelle che il lavoratore consuma) tendono a svalorizzarsi: questo vuol dire che col tempo il lavoratore ha bisogno di un salario sempre minore per comprare le stesse merci che prima pagava di più (bisogna però notare anche che col tempo i bisogni del lavoratore aumentano, perciò nel suo “paniere” entrano merci che prima non c’erano). Analizzando la produzione di plusvalore relativo si osserva che questa avviene potenziando la forza produttiva del lavoro (in particolare nei settori che producono beni legati alla sussistenza del lavoratore e quindi al valore della forza-lavoro). Il capitale tende a produrre la singola merce nel minor tempo possibile: se questo tempo è inferiore alla media dei suoi concorrenti, il valore individuale della merce da lui prodotta sarà inferiore a quello sociale (medio) della merce. Questo permette di venderla allo stesso prezzo dei concorrenti (ottenendo un plusvalore maggiore) o di venderla a prezzo minore (per togliere quote di mercato alla concorrenza). In entrambi i casi, il capitalista realizza un sovra profitto (dovuto a condizioni eccezionali del suo processo produttivo) che però non dura per sempre perché, secondo la legge della concorrenza, per rimanere sul mercato i capitali devono adeguarsi alle nuove condizioni di produzione, introducendo le innovazioni tecniche. I capitali più deboli che non riescono ad adeguarsi rischiano di essere espulsi dal mercato (periscono o vengono assorbiti dai capitali più forti). Il valore sociale della merce tende ad allinearsi (verso il basso) a quello individuale della merce prodotta dal capitale innovativo (sparisce il sovra profitto). Quando il processo generato dalla concorrenza interessa i settori che producono merci destinate al consumo di massa, diminuisce il tempo di lavoro necessario (permettendo quindi l’estrazione di maggior plusvalore relativo).
Una volta che il capitale è cresciuto abbastanza, il capitalista assumerà nuovi operai che lavorino in cooperazione. Il lavoro sociale (cooperazione manifatturiera) si basa sulla riunione di molti operai nello stesso luogo fisico di lavoro. Questo permette una migliore economia nell’uso dei mezzi di produzione (ammortizzandone i costi), che determina un’ulteriore riduzione del valore (e quindi del prezzo) delle merci prodotte. La produttività aumenta grazie all’impiego simultaneo di molte giornate lavorative (operaio complessivo) che, combinate, possono produrre più della somma di tante forza-lavoro indipendenti. Il capitalista svolge funzioni di controllo, direzione e coordinamento dell’attività produttiva, imponendo una rigida disciplina alla massa dei lavoratori. La cooperazione manifatturiera si basa sulla divisione del lavoro: un mestiere artigiano viene sezionato in operazioni parziali affidate al singolo operaio (che dovrà eseguire sempre e solo la stessa operazione elementare). Questo porta al vantaggio (dal punto di vista del capitalista) di aumentare l’intensità e la precisione del lavoro e di ridurre i tempi morti e gli sprechi, il che vuol dire un significativo aumento della produttività. L’operaio non è più autonomo, ma è dipendente dagli altri e diventa (insieme agli altri) un accessorio al servizio dei mezzi di produzione. Questo lo costringe ad impiegare solo il tempo necessario per consegnare una determinata quantità di prodotti entro un determinato tempo di lavoro.
Il singolo operaio non deve più imparare un mestiere completo, ma solo una parte, perciò il costo della sua formazione è minore (come sarà minore il suo salario e quindi ancora una volta sarà maggiore il plusvalore relativo estratto dal capitalista). Il padrone può assumere operai senza abilità (disposti quindi a guadagnare pochissimo). La divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale si approfondisce: l’operaio parziale diventa un semplice accessorio dell’officina, perdendo la parte di intellettualità di cui era depositario l’artigiano. L’officina, infatti, si basa sull’ignoranza e può essere considerata come una macchina le cui parti sono uomini. La divisione del lavoro è quindi un metodo di produrre plusvalore relativo accrescendo la “ricchezza nazionale” (rendita del capitale) a spese di lavoratori sempre più sfruttati. La situazione creata dalla divisione del lavoro assicura sempre più la dominazione del capitale sul lavoro. La caratteristica del capitalismo è l’aumento progressivo del numero minimo degli operai che un capitalista deve impiegare in un certo settore (con lo sviluppo capitalistico di un certo settore diventa sempre più difficoltoso l’ingresso di nuovi produttori, anzi si tende ad espellere quelli più deboli). Quando la manifattura si è sviluppata al massimo viene introdotta la macchina, che apre allo sviluppo della grande industria (verso la metà del XIX secolo).