F.16. ORIGINE DEL CAPITALISMO
«L'arma della critica non può certamente sostituire la critica delle armi».
(Karl Marx, da Per la critica della filosofia del diritto di Hegel)
L’origine del capitalismo è un argomento affrontato nel primo libro del Capitale, ma noi preferiamo trattarlo in un capitolo a parte. Finora Marx ha usato il metodo logico (passando dialetticamente dal più semplice al più complesso, dal particolare al generale) per analizzare il capitalismo. È per questo che la sua analisi parte dalla merce, che è l’unità più semplice del sistema complessivo. Una volta analizzato il funzionamento del capitalismo, Marx torna ad usare il metodo storico per affrontare modalità e tempistiche della nascita del capitalismo. Se il capitale tende all’accumulazione (cioè all’aumento del capitale iniziale), risalendo indietro si troverà la provenienza dell’accumulazione originaria che ha innescato il processo. A questo punto ci chiediamo: “Qual è la fonte dell’accumulazione primitiva (proprietà privata del capitalista)?” La classe borghese spiega in maniera ideologica, errata e ingannevole, che un tempo tutti gli uomini erano liberi ed uguali e che la fonte dell’accumulazione primitiva nasce dal fatto che alcuni uomini erano laboriosi, sobri ed economici (riuscendo a mettere da parte una ricchezza economica di cui godranno in seguito loro stessi e i propri discendenti), mentre altri erano poltroni e dissipatori che caddero in miseria (condannando anche i loro discendenti). Ammesso che questa teoria sia vera, sarebbe comunque ingiusto che i figli paghino per gli errori dei loro padri (o che al contrario godano per meriti non propri). Ma questa spiegazione è ovviamente del tutto falsa e fuorviante. In realtà analizzando la storia (scritta dagli stessi borghesi per uso e consumo della propria classe) è possibile trovare la vera causa dell’accumulazione primitiva.
Con una piccola premessa facciamo notare che la produzione di plusvalore non è un fatto naturale, ma presuppone un certo sviluppo delle forze produttive, che è raggiunto solo ad un certo grado dello sviluppo storico della società umana. È necessario, infatti, che il lavoratore produca un’eccedenza rispetto a quanto gli è necessario per vivere, in modo che questa eccedenza possa essere ceduta ad un altro. Le prime civiltà nascono dove il clima è favorevole e la terra è fertile (Mesopotamia e Egitto), il che permette una notevole eccedenza di tempo e quindi la divisione in classi della società. Dove la natura è generosa e concede quasi spontaneamente all’uomo di che vivere, non è necessario uno sviluppo avanzato di tecnologie per il dominio dell’uomo sulla natura e dei ritmi di lavoro. Il capitalismo, infatti, non nasce nei paesi caldi perché la sua affermazione richiede invece il raggiungimento del dominio dell’uomo sulla natura. Questa è una (ma non l’esclusiva) delle spiegazioni per cui nasce in Europa. L’approccio storico definisce il capitalismo come modo di produzione storico e quindi soggetto a nascere, svilupparsi, decadere e morire per lasciare il posto a forme di rapporti sociali differenti. Sappiamo che denaro e merce diventano capitale quando vengono impiegati per la creazione di plusvalore, perciò il processo di accumulazione originaria coincide con la nascita dei due termini essenziali nel capitalismo: la forza-lavoro (classe proletaria) e il capitale (borghesia). Questo processo storico ha origine nel momento in cui il piccolo produttore viene espropriato dei suoi mezzi di produzione. L’espropriazione dei mezzi di produzione avviene per due vie: quella interna e quella esterna.
Sul fronte interno la via per l’espropriazione è la privatizzazione delle terre demaniali. Questo avviene in Inghilterra tra il XV e il XVIII secolo, prendendo il nome di “rivoluzione agricola”, che prevede anche l’alienazione delle terre della Chiesa (secondo la riforma protestante). Questi provvedimenti causarono la violenta cacciata dei contadini dalle campagne a favore di una ristretta oligarchia che si appropriò di vaste terre a prezzi irrisori. Gli ex contadini diventarono vagabondi e mendicanti che vivevano di espedienti percorrendo campagne e città. A loro si aggiunse quella popolazione feudale senza collocazione stabile e le famiglie (ex inservienti, ecc) rimaste senza sostentamento a causa della dissoluzione delle corti feudali. Questo è il nucleo della futura classe proletaria, la cui nascita non fu un fatto naturale e men che meno idilliaco, bensì il prodotto della violenza del potere statale che, tramite leggi sanguinarie, tese a reprimere il vagabondaggio con pene quali la fustigazione, prigione e morte.
L’intervento dello Stato non si fermò qui: a causa dell’alta richiesta di forza-lavoro i salari rischiavano di aumentare tanto da vanificare il plusvalore estratto, minando le basi della prima accumulazione capitalistica. Per questo motivo lo Stato impose dei limiti al massimo salariale, prevedendo addirittura la galera per quelli che corrispondevano salari più alti di quelli stabiliti. In generale la caratteristica del proletario non è tanto il livello del suo salario, ma il non disporre di redditi sufficienti per lavorare autonomamente, pregiudicandogli quindi la possibilità di risparmiare. La quasi totalità dei proletari, dopo un’intera vita di lavoro, non riescono ad accumulare abbastanza risparmi da acquistare mezzi di produzione. La condizione proletaria si generalizza e tende a proletarizzarsi quella parte di piccola borghesia che non regge la concorrenza. Sempre a causa dello Stato viene impedita la capacità di organizzazione della classe lavoratrice e la costruzione di sindacati operai. Nel frattempo le prime industrie contribuirono a distruggere la produzione domestica e a creare il mercato interno.
Veniamo ora a scoprire cosa avviene nel frattempo sul fronte esterno: il colonialismo. Probabilmente questo è il fattore che più ha pesato nella costruzione di quell’accumulazione primitiva che ha consentito la diffusione del capitalismo. Ancora una volta si nota come l’accumulazione originaria di capitale nasca dalla violenza dello Stato ed in particolare dalle guerre commerciali. A partire dal ‘400 gli europei colonizzano l’Africa per poi spingersi successivamente in Asia (India, Indocina, Cina, ecc). Le scoperte geografiche (in particolare quella dell’America) consentono di sviluppare il mercato a livello mondiale. Il compito del colonialismo europeo (a partire da XV e XVI secolo) è mettere in moto il processo di accumulazione capitalistica primaria. Le colonie forniscono materie prime e metalli preziosi (oro e argento in America) e forza-lavoro a basso costo, quando non gratuita (gli indigeni che non vengono sterminati, vengono ridotti in schiavitù). Inoltre queste colonie offrono un mercato per le crescenti manifatture e il monopolio di questo mercato intensifica l’accumulazione. Il processo globale dell’Europa colonizzatrice rappresenta la nascita sanguinosa del capitalismo. La trasformazione dal feudalesimo al capitalismo avviene grazie al traffico di schiavi dall’Africa occidentale all’America, che diede prosperità economica ai mercanti europei e culturale al cattolicesimo (ma anche un notevole accrescimento di potere e influenza complessiva per la Chiesa). L’estrazione di oro e minerali dall’Africa rappresenta una componente importante dell’accumulazione originaria di capitale. Lo Stato affida le terre appena scoperte a compagnie commerciali (come la Compagnia delle Indie), che potevano sfruttare le enormi risorse dei territori in condizioni di monopolio.
La “rivoluzione borghese” è finanziata dal commercio e dalla schiavitù. Il potere dei mercanti aveva già svuotato il feudalesimo di gran parte della sua economia grazie alle guerre coloniali e ai carichi di schiavi naviganti l’Atlantico. È grazie alla potenza economica del colonialismo che la borghesia diventa abbastanza forte da sconfiggere il feudalesimo. Si può dire che il colonialismo è stato la balia del capitalismo. Chiaramente i detentori di capitale esistevano ben prima dell’affermazione del capitalismo, ma non erano classe dominante. Lo diventarono attraverso una rivoluzione “modale”, cioè del modo di produzione. I capitalisti europei, con l’appoggio della Chiesa e delle monarchie feudali, saccheggiarono il resto del mondo: conquistadores, mercanti di schiavi e missionari diedero a questi capitalisti la terra, le materie prime e il lavoro a basso costo di cui avevano bisogno per rovesciare il feudalesimo, diventando classe dominante in Europa. Il colonialismo causò genocidi e distruzione delle grandi civiltà non europee, che andarono a rifornire gli europei di capitale (fisso, la terra, e variabile, il lavoro). I futuri USA diventano una colonia britannica a partire dall’insediamento in Virginia agli inizi del ‘600. Col tempo i coloni sterminano gli indiani appropriandosi delle loro terre.
La gestione del sistema coloniale e le guerre per difendere e aumentare le conquiste, determinarono l’aumento delle spese Statali e l’insorgere di grossi debiti pubblici. Il debito pubblico svolge una funzione centrale nella formazione del capitalismo: il prestito pubblico favorisce l’accentramento dei capitali nelle mani di pochi (che prestavano denaro allo Stato in cambio di interessi). Le prime banche nazionali nacquero come associazione dei creditori dello Stato. Nasce il moderno sistema tributario per il finanziamento del debito pubblico, tramite l’aumento e l’estensione della pressione fiscale che aggravò ulteriormente le condizioni di contadini e artigiani, accelerandone l’espropriazione. Il processo di ampliamento del debito pubblico produceva da una parte capitalisti e dall’altra poveri e quindi proletari disponibili ad essere impegnati come salariati.
Dietro tutti gli strumenti che hanno dato impulso allo sviluppo del capitalismo, ci fu l’intervento dello Stato, che è lo strumento della violenza concentrata ed organizzata della classe dominante nella società. Alla fine della sua analisi Marx conclude che il capitale viene al mondo grondando sangue e sudiciume da tutti i pori. Marx pone infatti l’accento sull’importanza della violenza nelle trasformazioni generali della società, come strumento di accelerazione dei processi di trasformazione. Questo è stato vero per ogni rivoluzione “modale” (cioè del modo di produzione) avvenuta nella storia. Nell’epoca antica gli scontri tra le prime comunità portano alla schiavitù dei vinti e al passaggio di proprietà di tutte le ricchezze ai vincitori; nel medioevo assistiamo ad invasioni di popoli militarmente più forti che vanno ad impossessarsi delle ricchezze naturali di altri popoli; nell’epoca moderna la rivoluzione borghese ha distrutto il feudalesimo trasformando la servitù in salariato, togliendo al lavoratore quei pochi mezzi di esistenza che la servitù gli assicurava. In questo modo il lavoratore diventa un proletario “libero” di scegliere tra farsi sfruttare dalla classe borghese oppure morire di fame.
Sin dalla nascita del capitale, si evidenzia che la tendenza storica dell’accumulazione capitalistica è all’eliminazione della piccola proprietà, favorendo piuttosto la centralizzazione di questa in poche mani. Marx critica l’economia politica classica quando confonde le due tipologie di proprietà privata (quella basata sul lavoro personale del produttore e quella basata sullo sfruttamento del lavoro altrui, che è poi quella capitalistica). Il capitalismo si sviluppa distruggendo la piccola proprietà per favorire la proprietà capitalistica. Questo processo è tuttora in pieno svolgimento: per fare solo un esempio basta pensare all’attacco all’agricoltura dei paesi del terzo mondo, attraverso l’ausilio degli OGM e del brevetto (da parte di multinazionali come la Monsanto) di semi di piante che da millenni fanno parte della cultura agricola di questi paesi. Ciò vuol dire vietare (con leggi approvate da organismi del capitalismo transnazionale) a quei paesi di continuare a produrre come hanno sempre fatto e costringerli alle regole del capitalismo monopolista. Per fare un esempio ancora più pratico e attuale, sempre rimanendo nel campo agricolo, assistiamo oggi a leggi che rendono difficile (tramite una serie sempre più ampia di limiti) la produzione individuale, fino ad impedire la coltivazione di piccoli orti urbani casalinghi, in modo, anche in questo caso, da costringere le persone ad abbandonare l’autoproduzione ed accettare il mercato capitalista.
Con una piccola premessa facciamo notare che la produzione di plusvalore non è un fatto naturale, ma presuppone un certo sviluppo delle forze produttive, che è raggiunto solo ad un certo grado dello sviluppo storico della società umana. È necessario, infatti, che il lavoratore produca un’eccedenza rispetto a quanto gli è necessario per vivere, in modo che questa eccedenza possa essere ceduta ad un altro. Le prime civiltà nascono dove il clima è favorevole e la terra è fertile (Mesopotamia e Egitto), il che permette una notevole eccedenza di tempo e quindi la divisione in classi della società. Dove la natura è generosa e concede quasi spontaneamente all’uomo di che vivere, non è necessario uno sviluppo avanzato di tecnologie per il dominio dell’uomo sulla natura e dei ritmi di lavoro. Il capitalismo, infatti, non nasce nei paesi caldi perché la sua affermazione richiede invece il raggiungimento del dominio dell’uomo sulla natura. Questa è una (ma non l’esclusiva) delle spiegazioni per cui nasce in Europa. L’approccio storico definisce il capitalismo come modo di produzione storico e quindi soggetto a nascere, svilupparsi, decadere e morire per lasciare il posto a forme di rapporti sociali differenti. Sappiamo che denaro e merce diventano capitale quando vengono impiegati per la creazione di plusvalore, perciò il processo di accumulazione originaria coincide con la nascita dei due termini essenziali nel capitalismo: la forza-lavoro (classe proletaria) e il capitale (borghesia). Questo processo storico ha origine nel momento in cui il piccolo produttore viene espropriato dei suoi mezzi di produzione. L’espropriazione dei mezzi di produzione avviene per due vie: quella interna e quella esterna.
Sul fronte interno la via per l’espropriazione è la privatizzazione delle terre demaniali. Questo avviene in Inghilterra tra il XV e il XVIII secolo, prendendo il nome di “rivoluzione agricola”, che prevede anche l’alienazione delle terre della Chiesa (secondo la riforma protestante). Questi provvedimenti causarono la violenta cacciata dei contadini dalle campagne a favore di una ristretta oligarchia che si appropriò di vaste terre a prezzi irrisori. Gli ex contadini diventarono vagabondi e mendicanti che vivevano di espedienti percorrendo campagne e città. A loro si aggiunse quella popolazione feudale senza collocazione stabile e le famiglie (ex inservienti, ecc) rimaste senza sostentamento a causa della dissoluzione delle corti feudali. Questo è il nucleo della futura classe proletaria, la cui nascita non fu un fatto naturale e men che meno idilliaco, bensì il prodotto della violenza del potere statale che, tramite leggi sanguinarie, tese a reprimere il vagabondaggio con pene quali la fustigazione, prigione e morte.
L’intervento dello Stato non si fermò qui: a causa dell’alta richiesta di forza-lavoro i salari rischiavano di aumentare tanto da vanificare il plusvalore estratto, minando le basi della prima accumulazione capitalistica. Per questo motivo lo Stato impose dei limiti al massimo salariale, prevedendo addirittura la galera per quelli che corrispondevano salari più alti di quelli stabiliti. In generale la caratteristica del proletario non è tanto il livello del suo salario, ma il non disporre di redditi sufficienti per lavorare autonomamente, pregiudicandogli quindi la possibilità di risparmiare. La quasi totalità dei proletari, dopo un’intera vita di lavoro, non riescono ad accumulare abbastanza risparmi da acquistare mezzi di produzione. La condizione proletaria si generalizza e tende a proletarizzarsi quella parte di piccola borghesia che non regge la concorrenza. Sempre a causa dello Stato viene impedita la capacità di organizzazione della classe lavoratrice e la costruzione di sindacati operai. Nel frattempo le prime industrie contribuirono a distruggere la produzione domestica e a creare il mercato interno.
Veniamo ora a scoprire cosa avviene nel frattempo sul fronte esterno: il colonialismo. Probabilmente questo è il fattore che più ha pesato nella costruzione di quell’accumulazione primitiva che ha consentito la diffusione del capitalismo. Ancora una volta si nota come l’accumulazione originaria di capitale nasca dalla violenza dello Stato ed in particolare dalle guerre commerciali. A partire dal ‘400 gli europei colonizzano l’Africa per poi spingersi successivamente in Asia (India, Indocina, Cina, ecc). Le scoperte geografiche (in particolare quella dell’America) consentono di sviluppare il mercato a livello mondiale. Il compito del colonialismo europeo (a partire da XV e XVI secolo) è mettere in moto il processo di accumulazione capitalistica primaria. Le colonie forniscono materie prime e metalli preziosi (oro e argento in America) e forza-lavoro a basso costo, quando non gratuita (gli indigeni che non vengono sterminati, vengono ridotti in schiavitù). Inoltre queste colonie offrono un mercato per le crescenti manifatture e il monopolio di questo mercato intensifica l’accumulazione. Il processo globale dell’Europa colonizzatrice rappresenta la nascita sanguinosa del capitalismo. La trasformazione dal feudalesimo al capitalismo avviene grazie al traffico di schiavi dall’Africa occidentale all’America, che diede prosperità economica ai mercanti europei e culturale al cattolicesimo (ma anche un notevole accrescimento di potere e influenza complessiva per la Chiesa). L’estrazione di oro e minerali dall’Africa rappresenta una componente importante dell’accumulazione originaria di capitale. Lo Stato affida le terre appena scoperte a compagnie commerciali (come la Compagnia delle Indie), che potevano sfruttare le enormi risorse dei territori in condizioni di monopolio.
La “rivoluzione borghese” è finanziata dal commercio e dalla schiavitù. Il potere dei mercanti aveva già svuotato il feudalesimo di gran parte della sua economia grazie alle guerre coloniali e ai carichi di schiavi naviganti l’Atlantico. È grazie alla potenza economica del colonialismo che la borghesia diventa abbastanza forte da sconfiggere il feudalesimo. Si può dire che il colonialismo è stato la balia del capitalismo. Chiaramente i detentori di capitale esistevano ben prima dell’affermazione del capitalismo, ma non erano classe dominante. Lo diventarono attraverso una rivoluzione “modale”, cioè del modo di produzione. I capitalisti europei, con l’appoggio della Chiesa e delle monarchie feudali, saccheggiarono il resto del mondo: conquistadores, mercanti di schiavi e missionari diedero a questi capitalisti la terra, le materie prime e il lavoro a basso costo di cui avevano bisogno per rovesciare il feudalesimo, diventando classe dominante in Europa. Il colonialismo causò genocidi e distruzione delle grandi civiltà non europee, che andarono a rifornire gli europei di capitale (fisso, la terra, e variabile, il lavoro). I futuri USA diventano una colonia britannica a partire dall’insediamento in Virginia agli inizi del ‘600. Col tempo i coloni sterminano gli indiani appropriandosi delle loro terre.
La gestione del sistema coloniale e le guerre per difendere e aumentare le conquiste, determinarono l’aumento delle spese Statali e l’insorgere di grossi debiti pubblici. Il debito pubblico svolge una funzione centrale nella formazione del capitalismo: il prestito pubblico favorisce l’accentramento dei capitali nelle mani di pochi (che prestavano denaro allo Stato in cambio di interessi). Le prime banche nazionali nacquero come associazione dei creditori dello Stato. Nasce il moderno sistema tributario per il finanziamento del debito pubblico, tramite l’aumento e l’estensione della pressione fiscale che aggravò ulteriormente le condizioni di contadini e artigiani, accelerandone l’espropriazione. Il processo di ampliamento del debito pubblico produceva da una parte capitalisti e dall’altra poveri e quindi proletari disponibili ad essere impegnati come salariati.
Dietro tutti gli strumenti che hanno dato impulso allo sviluppo del capitalismo, ci fu l’intervento dello Stato, che è lo strumento della violenza concentrata ed organizzata della classe dominante nella società. Alla fine della sua analisi Marx conclude che il capitale viene al mondo grondando sangue e sudiciume da tutti i pori. Marx pone infatti l’accento sull’importanza della violenza nelle trasformazioni generali della società, come strumento di accelerazione dei processi di trasformazione. Questo è stato vero per ogni rivoluzione “modale” (cioè del modo di produzione) avvenuta nella storia. Nell’epoca antica gli scontri tra le prime comunità portano alla schiavitù dei vinti e al passaggio di proprietà di tutte le ricchezze ai vincitori; nel medioevo assistiamo ad invasioni di popoli militarmente più forti che vanno ad impossessarsi delle ricchezze naturali di altri popoli; nell’epoca moderna la rivoluzione borghese ha distrutto il feudalesimo trasformando la servitù in salariato, togliendo al lavoratore quei pochi mezzi di esistenza che la servitù gli assicurava. In questo modo il lavoratore diventa un proletario “libero” di scegliere tra farsi sfruttare dalla classe borghese oppure morire di fame.
Sin dalla nascita del capitale, si evidenzia che la tendenza storica dell’accumulazione capitalistica è all’eliminazione della piccola proprietà, favorendo piuttosto la centralizzazione di questa in poche mani. Marx critica l’economia politica classica quando confonde le due tipologie di proprietà privata (quella basata sul lavoro personale del produttore e quella basata sullo sfruttamento del lavoro altrui, che è poi quella capitalistica). Il capitalismo si sviluppa distruggendo la piccola proprietà per favorire la proprietà capitalistica. Questo processo è tuttora in pieno svolgimento: per fare solo un esempio basta pensare all’attacco all’agricoltura dei paesi del terzo mondo, attraverso l’ausilio degli OGM e del brevetto (da parte di multinazionali come la Monsanto) di semi di piante che da millenni fanno parte della cultura agricola di questi paesi. Ciò vuol dire vietare (con leggi approvate da organismi del capitalismo transnazionale) a quei paesi di continuare a produrre come hanno sempre fatto e costringerli alle regole del capitalismo monopolista. Per fare un esempio ancora più pratico e attuale, sempre rimanendo nel campo agricolo, assistiamo oggi a leggi che rendono difficile (tramite una serie sempre più ampia di limiti) la produzione individuale, fino ad impedire la coltivazione di piccoli orti urbani casalinghi, in modo, anche in questo caso, da costringere le persone ad abbandonare l’autoproduzione ed accettare il mercato capitalista.