21 Novembre 2024

C.5. LE BASI DELLA PROPRIETÀ PRIVATA GENERANO LE GUERRE

«La guerra non è in contraddizione con le basi della proprietà privata, ma è il risultato diretto e inevitabile dello sviluppo di queste basi». Muoviamo da questa massima di Lenin per sviluppare il tema del legame inscindibile che si crea tra il capitalismo e le guerre. Sia chiaro: le guerre, così come l'oppressione dell'uomo sull'uomo, non nascono con il capitalismo. Sarebbe assurdamente antistorico pensare una cosa del genere. Così come la storia ha mostrato che conflitti bellici possono sorgere anche tra paesi socialisti (ad esempio la guerra tra Vietnam e Cina). Una cosa certa è però la costanza con cui all'interno dei rapporti di produzione capitalistici si giunga alla necessità di intraprendere guerre con ogni mezzo (anche con la menzogna spudorata), al fine molteplice di superare le momentanee crisi capitalistiche interne o di ottenere facili e rapidi miglioramenti nei profitti industriali. Il Generale Fabio Mini, ex Capo di stato maggiore del comando Nato per il Sud Europa, è candidamente esplicito a riguardo: «ogni guerra si è procurata i pretesti sia facendo appello a motivi giusti e veri, sia fabbricandone di falsi […] era falso il pretesto della armi di distruzione di massa di Saddam che nel 2003, in piena guerra afghana, ha aperto un secondo conflitto, portando l’America al collasso economico e di immagine». Come «era falso il pretesto dell’incidente del Tonchino che ha dato l’avvio all’assurda guerra del Vietnam». E sempre falso era «il massacro di Racak del 1999, che ha fornito il pretesto per la guerra in Kosovo. I quarantacinque corpi di civili trovati morti in un fosso non erano il risultato di un eccidio serbo perpetrato in una notte di tregenda, ma l’esito di corpi di ribelli ammazzati nel corso di un mese di combattimenti, cambiando loro i vestiti e togliendo le armi». Tutte le ipocrisie favoriscono gli affari e in tutte le guerre si fanno grandissimi affari. Infatti i fatturati delle cinque principali multinazionali delle armi sono passati dai 217 miliardi del 2001 ai 386 del 2010, e i profitti, che nel 2001 erano 6,7 miliardi, sono diventati 24,8 miliardi di dollari.
Karl Liebknecht già cent'anni fa, alla vigilia della carneficina della prima guerra mondiale, denunciava la necessità di statalizzare
«l’intera industria degli armamenti, anche per il suo bene, perché soltanto in tal modo sarà possibile eliminare una classe di interessati la cui esistenza rappresenta per l’intero mondo un costante pericolo di guerra e per estirpare così una delle radici della follia degli armamenti ed una delle radici delle discordie tra i popoli. […] Nell’interesse del mantenimento della pace, nell’interesse della promozione degli sforzi che debbono impedire che per una simile folle politica di prestigio l’Europa sia trascinata in una guerra, è necessario ancora una volta additare a tutto il mondo quelle cricche capitalistiche il cui interesse ed il cui nutrimento sono la discordia tra i popoli, i conflitti tra i popoli, la guerra; è necessario gridare ai popoli: la patria è in pericolo! Ma non è in pericolo per via del nemico esterno, ma per via di quel minaccioso nemico interno, soprattutto per via dell’industria internazionale degli armamenti».
Le spese militari sono certo pericolose dal momento in cui vanno ad alimentare una già potente industria degli armamenti su scala internazionale, ma sono anche profondamente irrazionali nella loro consistenza e dimensione. Secondo i dati (risalenti al 2012) del Sipri, l’autorevole istituto internazionale con sede a Stoccolma la spesa militare della Nato ammonta a oltre 1000 miliardi di dollari annui, equivalenti al 57% del totale mondiale. In realtà è più alta in quanto alla spesa statunitense, quantificata dalla Nato in 735 miliardi di dollari annui, vanno aggiunte altre voci di carattere militare non comprese nel budget del Pentagono – tra cui 140 miliardi annui per i militari a riposo, 53 per il «programma nazionale di intelligence», 60 per la «sicurezza della patria» – che portano la spesa reale Usa a oltre 900 miliardi, ossia a più della metà di quella mondiale. L'Italia, che nonostante le apparenze resta una potenza imperialista di primo piano, è salita nel 2012 al decimo posto tra i paesi con le più alte spese militari del mondo, con circa 34 miliardi di dollari, pari a 26 miliardi di euro annui. Complessivamente si parla insomma di cifre enormi, specie se si considera, come ricorda Luciano Gallino che «il rapporto 2003 sullo Sviluppo umano dell'ONU stimava che per sradicare la povertà estrema e la fame ci sarebbero voluti 76 miliardi di dollari l'anno. Si può supporre che ai nostri giorni l'importo sia salito, a dire molto, a 100 miliardi». Il che spinge il sociologo torinese a domandarsi: «c'è da chiedersi che razza di mondo sia quello che produce valore per 65.000 miliardi di dollari l'anno e non ne trova un centinaio – pari a un seicentocinquantesimo del totale – per sconfiggere la povertà estrema e la fame». La risposta è che si tratta di un mondo in cui prevale ancora il potere imperialista, che non ha alcuna intenzione di mollare l'osso. Infatti le potenze imperialistiche, per mantenere i propri privilegi e la propria oppressione su scala internazionale, adottano sempre in maniera furbesca motivazioni di facciata riconducibili alla necessità di salvaguardare vite umane o di promuovere diritti (esportare la “democrazia”) per promuovere le proprie guerre. Non è una novità. Già ai tempi di Bismarck si spacciavano gli interventi coloniali come necessari per “civilizzare” tribù selvagge, mentre perfino nell'epoca del primo colonialismo spagnolo (16° secolo) ci si vantava di “salvare” popolazioni miscredenti diffondendo il verbo cristiano del Vangelo, mentre si attuava un silenzioso genocidio che faceva crollare la popolazione indigena da 30 a 3 milioni di persone in poche decine d'anni. Ho Chi Minh in tempi più recenti ricordava che «per nascondere la bruttezza del suo regime di sfruttamento criminale, il capitalismo coloniale decora sempre la sua bandiera del male con l'idealistico motto: Fraternità, Uguaglianza, ecc..».
In un articolo uscito il 18 novembre 2011, Danilo Zolo traccia invece in maniera chiara il vero fine di questi eventi:
«Se si adotta un approccio minimamente realistico, le motivazioni effettive delle “guerre globali” dell’ultimo ventennio possono essere agevolmente individuate. Accanto a interessi elementari come l’approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza dei traffici marittimi e aerei, la stabilità dei mercati, in particolare di quelli finanziari, emergono in primo piano le fonti energetiche delle quali il Medio-Oriente è ricchissimo: il petrolio e il gas naturale, anzitutto. E se si pensa alle guerre scatenate dagli Stati Uniti, non si può che riferirle a un progetto di occupazione neoimperialistica del Mediterraneo orientale, del Medio-Oriente e dell’Asia centrale secondo la logica del Broader Middle East».
La conclusione è che «l’ideologia occidentale della humanitarian intervention coincide con una strategia generale di promozione degli “interessi vitali” dei paesi occidentali».
Inutile però aggiungere che le conseguenze umane e sociali delle guerre imperialistiche hanno effetti ben più devastanti di quanto non facciano sapere all'opinione pubblica occidentale, e i danni si prolungano ben oltre il conflitto armato, in termini di mutilazioni permanenti, di scomposizione della vita familiare, di miseria, corruzione, violenza, odio, inquinamento ambientale. Di vera democrazia (anche solo intesa in senso borghese) e promozione di diritti non c'è mai traccia...
In generale occorre affermare che dalla disgregazione del blocco comunista e dalla crisi di molti paesi a regime socialista abbiamo assistito ad un rinnovato impeto imperialista dei paesi occidentali, di cui gli Stati Uniti hanno assunto la guida indiscussa. «Se c’è un paese nel mondo che ha commesso le più orribili atrocità questo è gli Stati Uniti d’America. A loro non importa nulla degli esseri umani», diceva il premio Nobel per la Pace Nelson Mandela (che per inciso tutto era tranne che un non-violento), il quale era certo a conoscenza del fatto che tra il 1890 e il 2014 gli USA abbiano invaso e bombardato 150 paesi. Sono più i paesi del mondo in cui gli USA sono intervenuti militarmente di quelli in cui ancora non l'hanno fatto. Numerosi storici calcolano in più di otto milioni le morti causate dalle guerre imperiali degli USA solo nel secolo XX. E dietro questa lista si nascondono centinaia di altre operazioni segrete, colpi di stato e protezioni a dittatori e gruppi terroristi. Da questo punto di vista la pace ha senz'altro un antagonista indiscusso che ha spadroneggiato in questo ultimo squarcio della storia dell'umanità.
Il processo di globalizzazione economica e finanziaria iniziato nella seconda metà del ‘900 ha infatti creato nuovi grandiosi spazi di espansione, in Europa orientale come in Asia e in Africa, che l'imperialismo ha colmato in brevissimo tempo. Ciò ha imposto un’accelerazione della competizione intercapitalista inedita nella storia dell’umanità, a danno delle classi lavoratrici di tutto il mondo. L’apertura improvvisa di nuovi mercati ha naturalmente posto con forza la questione del controllo politico ed economico degli equilibri mondiali. Per conservare una superiorità in crisi, la NATO e i centri imperialisti occidentali hanno proceduto ad una escalation militare su larga scala, che ha coinvolto decine di paesi e devastato nell’ordine la ex-Jugoslavia, la Somalia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria, l'Ucraina, oltre ad altri Stati minori in tutti i continenti. I centri di potere del capitalismo occidentale stanno giocando la partita definitiva per un nuovo ordine mondiale dopo la dissoluzione della potenza sovietica. Contro questo progetto però si sono scontrati interessi geopolitici maturati in seguito allo sviluppo economico e tecnologico di paesi un tempo periferici e colonizzati: è per l'appunto il caso dei BRICS (le grandi nazioni continentali di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), ed in particolar modo a mettere in crisi l'imperialismo sono il rinnovato attivismo diplomatico in politica estera della Russia e l'espansione economica e commerciale della Cina che con la sua politica globale di sviluppo a tutto campo è riuscita sia a penetrare in profondità nei mercati capitalistici occidentali sia a creare importanti cooperazioni strategiche con partner africani, sottraendoli dai monopoli neocoloniali. La nascita di un nuovo equilibrio multipolare da questo punto di vista è utile per porre un argine alle prevaricazioni arbitrarie che hanno caratterizzato la politica degli USA nel ventennio 1990-2010, ma reca con sé il costante rischio che dalla crisi del capitalismo occidentale si possa sfociare in una nuova guerra mondiale. La lotta contro la guerra è quindi lotta contro l’oppressione economica, declinata su un piano internazionale. Rosa Luxembug concludeva la questione così: «Pace significa rivoluzione mondiale del proletariato! Non c'è altra via per ristabilire e garantire realmente la pace che la vittoria del proletariato socialista».
Una questione che la Luxemburg approfondiva ulteriormente in questo scritto, in cui torna utile la critica netta alle “utopie pacifiste” tipiche di certi settori della borghesia:
«Gli amici della pace presenti nei circoli borghesi credono che la pace nel mondo e il disarmo possano essere realizzati entro la struttura dell’attuale ordine sociale, mentre noi, che basiamo la nostra analisi sulla concezione materialistica della storia e sul socialismo scientifico, sappiamo che il militarismo può essere cancellato dal mondo solo con la distruzione del sistema capitalista. Da ciò deriva la reciproca opposizione delle nostre tattiche nella diffusione dell’idea di pace. I pacifisti borghesi si sforzano - e dal loro punto di vista è perfettamente logico e comprensibile - di inventare ogni sorta di progetto “pratico” per ridurre gradualmente il militarismo, e sono naturalmente inclini a prendere per buono ogni segno apparente di una tendenza verso la pace, a credere sulla parola ad ogni dichiarazione della diplomazia, amplificandola fino a farne il fondamento della propria attività. I socialdemocratici, dal canto loro, devono, in questa come in tutte le vicende inerenti la critica sociale, considerare come loro compito quello di qualificare i tentativi borghesi di limitare il militarismo come pietose mezze misure, e le sentimentali dichiarazioni provenienti dagli ambienti governativi come diplomatiche messinscene, opponendo alle finzioni e alle rivendicazioni borghesi una spietata analisi della realtà capitalistica. Da questo punto di vista i compiti dei socialdemocratici, in merito alle benevole dichiarazioni elargite dal governo britannico, non possono che essere quelli di definire l’idea di una parziale limitazione degli armamenti come una impraticabile mezza misura, e di spiegare alla popolazione che il militarismo è strettamente intrecciato alle politiche coloniali, alle politiche doganali, alle politiche internazionali, e che quindi le nazioni presenti, se davvero volessero onestamente e sinceramente dire basta alla concorrenza sugli armamenti, dovrebbero iniziare dal disarmo della politica commerciale, abbandonando in tutte le parti del mondo le predatorie campagne coloniali e le politiche internazionali delle sfere d’influenza - in una parola dovrebbero fare, nella loro politica estera come in quella domestica, l’esatto contrario di tutte quelle politiche che la natura di un moderno stato capitalista esige. Da ciò si può evincere con chiarezza il nocciolo della concezione socialdemocratica secondo cui il militarismo, in entrambe le sue forme - come guerra e come pace armata - è il figlio legittimo e la logica conseguenza del capitalismo, quindi può essere superato solo con la distruzione del capitalismo stesso; per questo chiunque desideri onestamente la pace nel mondo e la liberazione dal tremendo fardello degli armamenti deve desiderare anche il socialismo».
I comunisti sono ben consapevoli della miseria della guerra imperialistica e lottano con ogni mezzo per evitarne il perpetuarsi, ma si rendono anche conto che finché si tratta di stare all'interno dei rapporti di produzione capitalistici, alcune guerre possono essere progressive, come ad esempio la guerra degli schiavi contro i loro padroni. Così precisa Lenin:
«I socialisti hanno sempre condannato le guerre fra i popoli come cosa barbara e bestiale. Ma il nostro atteggiamento di fronte alla guerra è fondamentalmente diverso da quello dei pacifisti borghesi (fautori e predicatori della pace) e degli anarchici. Dai primi ci distinguiamo in quanto comprendiamo l'inevitabile legame delle guerre con la lotta delle classi nell'interno di ogni paese, comprendiamo l'impossibilità di distruggere le guerre senza distruggere le classi ed edificare il socialismo, come pure in quanto riconosciamo pienamente la legittimità, il carattere progressivo e la necessità delle guerre civili, cioè delle guerre della classe oppressa contro quella che opprime, degli schiavi contro i padroni di schiavi, dei servi della gleba contro i proprietari fondiari, degli operai salariati contro la borghesia. E dai pacifisti e dagli anarchici noi marxisti ci distinguiamo in quanto riconosciamo la necessità dell'esame storico (dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx) di ogni singola guerra. Nella storia sono più volte avvenute delle guerre che, nonostante tutti gli orrori, le brutalità, le miserie ed i tormenti inevitabilmente connessi con ogni guerra, sono state progressive; che, cioè, sono state utili all'evoluzione dell'umanità, contribuendo a distruggere istituzioni particolarmente nocive e reazionarie (per esempio l'autocrazia o la servitù della gleba), i più barbari dispotismi dell'Europa (quello turco e quello russo)».
Così d'altronde argomentavano anche Marx ed Engels, quando si schieravano senza indugio dalla parte delle guerre anticoloniali dei popoli irlandesi e polacchi contro le potenze imperialistiche che le opprimevano impedendone una libera autodeterminazione.

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