9.3. IL “TERRORE BIANCO” SCATENATO DAGLI INSORTI
Proseguiamo nella cronaca88:
«converrà ricordare alcune fonti senz'altro attendibili, da cui si ricavò l'indicazione che un attacco armato contro il Governo ungherese, del tutto indipendentemente da quello che accadde il 23 ottobre, era stato preparato da lungo tempo, e che provano in modo certo l'assenza di spontaneità della minoranza che fece ricorso alle armi. Il 25 ottobre, un dispaccio da Budapest dell'United Press dichiarava che “i ribelli sono bene armati. È questo fatto che ha indicato per primo come un movimento clandestino, che sembra ben addestrato e ben equipaggiato, abbia scelto questo momento di crescente fermento del paese come l'occasione adatta per colpire il regime comunista”. Lo stesso giorno, il corrispondente da Budapest del Daily Mail di Londra riferiva di aver consumato la cena con dei dirigenti dell'insurrezione “che avevano preparato per un anno la rivolta di questa settimana”. Assai più estesa è una notizia dell'United Press, trasmessa il 30 ottobre da Kurt Neubauer dal centro di frontiera austriaco di Nickelsdorf. Dopo aver parlato lungamente con molti insorti armati, Mr. Neubauer giungeva a questa conclusione: “È abbastanza evidente, ormai, che la rivoluzione ungherese è stata preparata per mesi, o forse per anni interi”.
Sebbene alla domanda - “come avete potuto avere tanti fucili?” la risposta fosse “ogni volta un silenzio di pietra”, e come egli insisteva “volete dire che avete preparato questa rivolta per molto tempo, che vi siete organizzati, e avete aspettato?”, la risposta fosse ancora il silenzio, tuttavia la conclusione di Neubauer fu quella che abbiamo citato, perché, come egli stesso scriveva: “Solo poche ore dopo che la rivolta ebbe inizio, la settimana scorsa, tutti sembravano avere un'arma - chi una pistola, chi un fucile, e alcuni, una mitragliatrice. Migliaia di bracciali tricolori spuntarono sulle maniche dei volontari, e qualcuno doveva averli fabbricati. Gli uomini si avviavano al combattimento montati su autocarri: mobilitare tanti veicoli non era una cosa da poco. Piani come questi non potevano essere stati disegnati in un giorno o in una settimana soltanto”.
Le testimonianze sul terrore bianco che si sviluppò in Ungheria come situazione generale, in modo da richiamare direttamente alla memoria il 1919, soprattutto a partire dal 29 ottobre, quando l'Armata Rossa lasciò Budapest, sono universali ed eccellenti. Il terrore regnò con un crescendo di furia fino al 4 novembre, ossia fino al ritorno delle forze sovietiche. Elie Abel, scrivendo da Budapest il 29 ottobre per il New York Times, riferì che i cosiddetti “Consigli rivoluzionari” dell'Ungheria occidentale erano “occupati a gettare in carcere i rappresentanti locali del partito dei lavoratori ungheresi (comunista) e della polizia di sicurezza”. “In alcuni casi - egli continuava - questi servitori del regime di Budapest [cioè di Nagy, ormai] vengono impiccati o fucilati senza formalità”.
Il Daily Express di Londra del 31 ottobre pubblicava una descrizione del lungo e sistematico assalto condotto il giorno prima contro la sede centrale del partito a Budapest, dovuta al suo corrispondente Sefton Delmar che si era trovato sul posto. (Va ricordato ancora che, in quel momento, il Governo misto formato da Nagy il 27 ottobre e il Gabinetto di quattro partiti del 30 ottobre esercitavano il “potere”, a quanto si deve supporre). Gli attaccanti, scrive Delmar “hanno impiccato tutti senza eccezione, gli uomini e le donne trovati nel palazzo, fra cui alcuni comunisti buoni, sostenitori della ribellione contro Mosca del Primo ministro comunista Nagy... Gli impiccati pendono dalle finestre, dagli alberi, dai lampioni, da qualunque oggetto a cui si possa impiccare un uomo. Il male è che, insieme a loro, si seguita a impiccare anche dei semplici cittadini”. Il redattore per i Balcani del giornale del big business, United States News and World Report pubblicò il 9 novembre i suoi appunti, presi “mentre viaggiava in automobile dalla frontiera austriaca fino a Budapest”, nei giorni in cui i sovietici erano fuori dalla capitale: “Si passa vicino a grossi assembramenti di persone riunite intorno ai corpi di membri della polizia di sicurezza: costoro vengono battuti fino a divenire masse informi che non hanno più nulla di umano. Da una casa ne pendono altri, impiccati”.
[…] gli uomini uccisi, come mostrano chiaramente le loro uniformi e i loro volti, sono soldati dell'Esercito ungherese, molto giovani, reclute probabilmente, e non poliziotti di alcun genere. […] Gunnar D. Kumlein, corrispondente stabile da Roma del settimanale cattolico The Commonweal, si recò in Ungheria durante l'insurrezione. Sembra che egli abbia passato buona parte di quei giorni anche fuori Budapest. Sebbene le sue relazioni siano appassionatamente a favore dei “combattenti della libertà”, tuttavia egli riferisce, del resto senza un cenno di disapprovazione, che alcuni degli insorti “liquidavano i loro padroni comunisti come se fossero animali”. […] Leslie B. Bain, un osservatore molto moderato che conosce bene l'Ungheria, e che fu pure a Budapest durante l'insurrezione, scrive che mentre i segni della reazione estrema apparvero fin dall'inizio dell'azione violenta, a partire dal 29 ottobre essi si fecero via via più decisi: “...in diversi punti della città, dovunque si formava un gruppo di tumultuanti, vi erano alcuni individui che lanciavano parole d'ordine di nazionalismo estremo. Certe volte chiedevo se questi elementi nazionalisti avessero un comando centrale: ho fatto del mio meglio per scoprirlo, ma senza ottenere prove convincenti. Comunque, l'ondata nazionalista continuava a salire”.
Bain racconta che “il quinto giorno” [cioè, il 28 ottobre] “un personaggio molto vicino a Nagy ammise che coloro che avevano dato avvio alla rivolta ne avevano ormai perso il controllo”. Col passare dei giorni, “il Governo Nagy sprofondava sempre più nel caos. L'insurrezione andava alla deriva”. […] Le librerie furono un obiettivo particolare dei “combattenti della libertà”. Opere classiche di comunisti e di autori progressisti di tutto il mondo furono ammucchiate in grandi roghi per le strade. “I fuochi bruciarono per tutta la notte” riferiva estaticamente Leo Cherne sul New York Times. Ed ecco la testimonianza di Georges Vanhoute, segretario del sindacato americano di sinistra Chemical and Oil Workers Trade Union International [Unione internazionale dei chimici e lavoratori del petrolio], che fu a Budapest in quei giorni: “Le atrocità furono compiute specialmente nella seconda fase dei tragici eventi di Budapest, sull'onda di una campagna che veniva in primo luogo dall'esterno del paese, e qui vanno ricordate le trasmissioni di Radio Europa libera dalla Germania occidentale, ma anche di una campagna di incitamento all'odio condotta da elementi fascisti all'interno, e soprattutto a Budapest”. “Conosciamo direttamente casi di intere famiglie trucidate, come la famiglia Kalamar, e di operai attivi e coraggiosi, come Imre Mezo, già partigiano in Francia, che sono stati selvaggiamente torturati e uccisi”. “Venivano stampate e affisse nelle strade delle liste nere con i nomi di uomini e donne che dovevano essere uccisi, fra cui quelli di personalità culturali ungheresi e sovietiche, e di membri di organizzazioni operaie”.
[…] L'inviato speciale del quotidiano jugoslavo Politika, riassumendo gli eventi di quei giorni sul numero del 13 novembre del suo giornale, riferisce di abitazioni di comunisti marcate con una croce bianca, e quelle degli ebrei con una croce nera, come segni di riconoscimento per le squadre di sterminio. “Non vi è più dubbio possibile - scrive il giornalista jugoslavo - si tratta di un classico esempio di fascismo ungherese e di terrore bianco”. “Le informazioni che arrivano dalle province - continua poi - parlano di luoghi dove ai comunisti venivano cavati gli occhi, tagliate le orecchie, recata la morte nei modi più orribili”.
André Stil, redattore capo del quotidiano comunista francese l'Humanité, arrivò a Budapest il 12 novembre. I risultati della sua visita in varie parti della città e dei suoi colloqui con molti sopravvissuti del terrore bianco, comunisti e altri, coincidono sostanzialmente con le relazioni dirette dei testimoni oculari del New York Times, New York Herald Tribune, Commonweal, Commentary, United States News, Life e Politika - massacro sistematico fascista, che ricorda i giorni del 1933 a Berlino, e del 1919 nella stessa Budapest. “...dopo le torture, quelli che respiravano ancora vennero impiccati. Furono impiccati anche dei morti. Spesso i corpi degli impiccati erano in uno stato tale che non si poté più riconoscerli: gli alberi della piazza della Repubblica portano ancora le tracce dei pesi e dei colpi. I cadaveri erano forati dappertutto da colpi di baionetta, lividi di calci, graffiati, coperti di sputi...” “Fra coloro stessi che si erano lasciati trarre in inganno, ve ne furono molti che non poterono sopportare questi atti. Quasi tutti i compagni con cui ho parlato dovevano la loro salvezza solo all'intervento di questi individui, spesso gli stessi che, fino a un momento prima, si erano accodati ai tumulti”.
Mentre ottobre passava in novembre, la furia cresceva, e sempre più il massacro prendeva la forma di un'azione bene organizzata. Sempre nuove infornate di persone venivano arrestate e tenute pronte per il successivo sterminio. Alla fine del 3 novembre gli arrestati in attesa di esecuzione nell'immediato futuro erano centinaia a Budapest, e altre centinaia si trovavano in centri minori di tutto il paese. Vi sono prove conclusive del fatto che solo l'entrata delle truppe sovietiche a Budapest prevenì l'uccisione di centinaia, forse migliaia di ebrei: fra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, i pogrom antisemiti - segni del terrore fascista senza più freni - erano riapparsi in Ungheria, dopo una pausa di circa un decennio. […] Il corrispondente del giornale israeliano Maariv di Tel Aviv scrisse: “Durante l'insurrezione un certo numero di ex-nazisti furono liberati dalle prigioni, e altri giunsero in Ungheria da Salisburgo... Questi li incontrai al confine... A Budapest ho visto manifesti antisemiti nelle strade... Sui muri, sui lampioni, sui tram si leggevano scritte come 'Abbasso l'ebreo Gerö!', 'Abbasso l'ebreo Rákosi!', o semplicemente: 'Abbasso gli ebrei!'”.
Ai primi di novembre i circoli dirigenti rabbinici di New York ricevettero un telegramma dai loro confratelli di Vienna, in cui si comunicava che “sangue ebraico scorre in Ungheria per opera dei ribelli”. Molto più tardi, nel febbraio del 1957, il Congresso mondiale ebraico dichiarò che “durante la rivolta ungherese di ottobre-novembre eccessi antisemiti hanno avuto luogo in più di venti villaggi e piccoli centri della provincia”. Ciò era avvenuto, affermava questo organismo molto conservatore, perché “gruppi fascisti e antisemiti, a quanto sembra, avevano colto l'occasione offerta dalla carenza del potere centrale per ripresentarsi alla superficie”. Sempre secondo il rapporto del Congresso ebraico mondiale, molti dei profughi ebrei si erano allontanati dall'Ungheria per sfuggire alla tremenda atmosfera di pogrom antisemita che invadeva il paese. Ciò veniva a confermare la relazione fatta in precedenza dal rabbino inglese R. Pozner, il quale, dopo una visita ai campi di profughi ungheresi, dichiarò che “la maggior parte degli ebrei che hanno lasciato l'Ungheria sono fuggiti per paura degli ungheresi e non dei russi”. Il giornale ebraico di Parigi, Naye Presse, riferiva poi che i profughi ungheresi ebrei in Francia dichiaravano molto spesso di aver avuto salvata la vita da soldati sovietici. […] Il conte Edmond de Szigethy, antico proprietario di un'azienda tessile con 1200 operai, si trovò spossessato con l'avvento del socialismo. Anche questo gentiluomo fu un “combattente della libertà”, riuscì a scappare e certamente potrà cavarsela anche senza le sue 1200 “mani”. […] Da Emil Lengyel, sulla Saturday Review del 25 febbraio 1957, apprendiamo che “antichi membri del partito ungherese delle 'croci frecciate', in confronto al quale gli stessi nazisti tedeschi erano amici degli ebrei”, si sono guadagnati il titolo di “combattenti della libertà”, insieme ad altri elementi più degni. Lengyel riferisce che “il capo della 'Sezione per l'eliminazione degli ebrei' del suddetto partito riuscì a evadere dalla prigione durante i giorni di caos a Budapest, e si trova ora negli Stati Uniti”.
[…] Indicazioni riguardo all'entrata in Ungheria, subito dopo l'inizio dell'insurrezione, di gruppi reazionari provenienti dall'estero, oltre a quelle contenute in alcuni dei testi già citati, vengono date da molte altre fonti in maniera abbondante e sufficientemente conclusiva. Vi è intanto il fatto, già accennato, che per diversi mesi prima dell'ottobre, il confine con l'Austria fu praticamente aperto e che migliaia di turisti entrarono nel paese, specialmente a partire da agosto. In secondo luogo, è pure un fatto che gli insorti, quasi subito dopo i primi atti di violenza il 23 ottobre, concentrarono i loro sforzi sul tentativo di ottenere il controllo delle zone occidentali del paese: nessuna resistenza a quest'azione fu opposta dalle forze sovietiche, e il Governo di Budapest, quanto meno a partire dal 27 ottobre, non aveva certamente il potere di intervenire efficacemente in quelle regioni, anche nel caso che lo desiderasse. Alla fine di ottobre non vi era più nessuna forma di controllo di frontiera, mentre il paese stesso - col Governo centrale sciolto e ricostituito quasi ogni giorno e tendente a spostarsi sempre più verso destra ad ogni nuovo cambiamento - si avvicinava a uno stato di caos, e cominciava a esser preda del terrore bianco. […] Peter Fryer - il corrispondente in Ungheria del Daily Worker inglese, che diede le sue dimissioni dal giornale per il suo netto disaccordo col giudizio della direzione del Daily Worker sulla questione ungherese - pur ammettendo che “il pericolo della controrivoluzione esisteva davvero” stimava che esso non fosse acuto e che gli ungheresi, favorevoli al socialismo in grande maggioranza, avrebbero potuto opporsi da soli con successo a un tentativo di instaurare il fascismo. Ciò nonostante, dichiarava: “Da alcuni comunisti austriaci ho appreso che prima del 4 novembre circa 2000 emigrati, addestrati e armati dagli americani, avevano attraversato la frontiera con l'Ungheria occidentale per recarsi a combattere e a fare opera di agitazione”.
A nostro giudizio, gli elementi oggi disponibili indicano che la valutazione del numero di queste persone presentate da Mr. Fryer cada alquanto al di sotto della realtà (in accordo con la sua tendenza a minimizzare la minaccia della controrivoluzione, della restaurazione e del fascismo, che ci sembra provata dalle testimonianze raccolte in queste pagine). Tuttavia, il fatto che egli citi una cifra di 2000 individui ha un grande valore indicativo, perché anche solo questo numero di terroristi reazionari, addestrati e armati allo scopo e gettati nel cuore di quella tormenta che era l'Ungheria dopo il 23 ottobre, potevano avere un ruolo decisivo nel tener viva la violenza, il disordine e il panico. Essi potrebbero avere un peso determinante, per esempio, nello spiegare perché siano rimasti in gran parte senza eco i ripetuti appelli a deporre le armi lanciati da radio Budapest, anche e soprattutto dopo che un Governo a schiacciante maggioranza non-comunista aveva assunto il “potere”. E potrebbero avere parte decisiva nello spiegare il fenomeno delle squadre volanti di assassini che sterminarono un buon numero di ebrei, comunisti e altri, comprese intere famiglie, soprattutto nei cinque giorni dal 30 ottobre al 3 novembre. Non solo è certo che una corrente di fascisti e di altri reazionari emigrati dilagò al di là della frontiera ungherese dopo il 23 ottobre, ma è anche impossibile dubitare che il fenomeno non abbia avuto essenzialmente un carattere organizzato; è possibile che esso sia stato addirittura coordinato da un unico centro superiore. Inoltre vale la pena di notare, come scrisse il ben noto giornalista di Washington Drew Pearson nella sua colonna per i giornali a catena dell'8 novembre 1956, che “per una strana coincidenza, praticamente tutti i capi in esilio dei paesi satelliti attualmente domiciliati a Washington sono partiti per Parigi immediatamente prima della rivolta ungherese”. I personaggi citati comprendevano il polacco Mikolajczyk, il cecoslovacco Osusky, il bulgaro Dimitrov, e Ferenc Nagy, ex-Primo ministro ungherese; scrive Mr. Pearson: “Forse avevano un presentimento di quel che stava per accadere”.
[…] Gli assassini fascisti addestrati che entrarono in Ungheria non venivano solo dall'Europa. Vi è testimonianza non sospetta che alcuni fecero perfino il viaggio dagli Stati Uniti, e che anche costoro parteciparono ad atti di violenza in Ungheria. Verso la fine del 1956 cominciò a pubblicarsi a New York un giornale ungherese di estrema destra chiamato Szabad Magyarsag: nel numero del 21 dicembre troviamo un articolo di Hugo Martonfalvy, vice-capogruppo dell'MHBK negli Stati Uniti. Dopo aver espresso il suo rincrescimento perché le potenze occidentali non intervennero direttamente con armi e truppe, questo signore scrive: “Un piccolo gruppo, tuttavia, formato di antichi soldati ungheresi, membri dell'MHBK, riuscì a partire per riprendere i contatti con gli insorti, a dispetto di tutti gli ostacoli e i divieti. Il ruolo di questo piccolo gruppo non ha pesato molto, forse, sulla bilancia della situazione, ma esso è divenuto il simbolo della volontà di combattere degli ungheresi nazionali in esilio”. “Il nostro lavoro, durato per anni in silenzio, non si è dimostrato inutile. Allo scoppio della rivoluzione, la nostra direzione cominciò a trattare, e noi eravamo pronti per ogni azione attiva. Si comprende che il nostro lavoro, per la sua stessa natura, deve svolgersi in silenzio e per qualche aspetto in segreto”.
A quanto risulta, questi “combattenti della libertà” non incontrano difficoltà da parte dell'Ufficio passaporti del Dipartimento di Stato degli USA. Non solo rifornimenti e combattenti furono mandati in Ungheria da occidente ma anche altro materiale “speciale”. Il lettore ricorderà i manifestini, in lingua russa, che apparvero a Budapest negli ultimi giorni e che facevano appello ai soldati dell'Armata Rossa perché rivolgessero le armi contro i loro ufficiali, e, in altri casi, perché si unissero agli ungheresi in una crociata per la “liberazione” dell'Unione Sovietica. Sembra ora certo che questi manifestini furono stampati a migliaia a Milano, in Italia, prima di essere introdotti per vie ignote in territorio ungherese. In un discorso pubblico fatto a Milano il 20 gennaio 1957 Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista italiano, fece menzione di questi manifestini, e dichiarò: “...Ebbene. Sapete da che parte vengono questi manifestini? Vengono da Milano... L'Avanti! ha già pubblicato che in un campo presso Lodi è stato trovato un gran pacco pieno di questi manifestini. Ma i nostri compagni hanno anche scoperto che vi è una tipografia a Milano dove si stampano questi foglietti, in carattere cirillico, a decine di migliaia di esemplari, in cui si incita alla ribellione nelle file dell'esercito sovietico. Potrei fornire il nome della tipografia, l'indirizzo e il nome del proprietario...”
[…] Normalmente, Radio Europa libera trasmetteva per l'Ungheria un programma di 20 ore al giorno. Altri organismi, come la radio francese e inglese, la radio vaticana e la “Voce dell'America” avevano pure dei programmi speciali per l'Ungheria, per una durata variabile da 1 ora e mezza a 4 ore e mezza al giorno. Tutti, a partire dal 23 ottobre, estesero grandemente i loro programmi e letteralmente saturarono l'aria, per tutti i minuti della giornata, con trasmissioni dirette ad ogni parte dell'Ungheria. Queste trasmissioni - ma specialmente quelle provenienti da Radio Europa libera - chiesero esplicitamente, prima, il rovesciamento del Governo ungherese, e poi, senza interruzione, invitarono a premere con sempre nuove richieste sul Governo Nagy. Esse invocarono insistentemente la continuazione dell'azione armata, promettendo a chiare lettere che importanti aiuti materiali sarebbero presto arrivati dall'occidente. Alcune trasmissioni radio, sembra non direttamente dipendenti da Radio Europa libera, si assunsero il compito di fornire precise direttive tattiche di natura squisitamente militare. Uno degli insorti disse a un giornalista di Newsweek che, se erano gli ungheresi a condurre i combattimenti veri e propri “è stata la mano della radio occidentale a indicare dove dovevamo dirigerci e quali richieste dovevamo avanzare”. Togliatti, nel discorso del 20 gennaio 1957 citato poco sopra, dichiarava: “Quelli di noi che hanno in questi giorni aperto l'apparecchio radio, hanno sentito non solo la propaganda, ma gli ordini precisi che venivano dati dalle stazioni radio collocate in Germania e in Austria, a questo o quel determinato gruppo di armati, di assaltare questo o quel determinato edificio, di compiere questa o quella azione, di andare a raccogliere carichi di armi in quel punto della frontiera o del territorio. Queste cose le abbiamo sentite tutti...”».
88. A. Aptheker, La verità sull’Ungheria, cit.