09. CARATTERISTICHE ECONOMICHE DELLA VIA CINESE AL SOCIALISMO
Iniziamo un'ampia rassegna di approfondimento sul sistema socio-economico cinese, cercando di chiarirne i vari aspetti correlati al rapporto con la globalizzazione, con la questione dello sviluppo delle forze produttive, con l'intreccio di modelli socialisti “di mercato” e sistemi “misti” e con la dialettica tra sistema privato e pubblico. Gianni Cadoppi65 presenta Geofinanza e Geopolitica di Fabio Massimo Parenti e Umberto Rosati:
«“Se c’è un ‘modello cinese’, la sua più rilevante caratteristica è la volontà di sperimentare con differenti modelli” secondo il professor Arif Dirlik. Si è progressivamente passati, infatti, dalla Nuova Democrazia maoista, al “comunismo” della Rivoluzione Culturale, al “socialismo di mercato” di Deng, alle “tre rappresentanze” di Jang, alla “società armonica e allo sviluppo scientifico” di Hu e, ancora al “sogno cinese” di Xi Jinping. Il tutto all’interno del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Del resto, il marxismo essendo una dottrina che si considera scientifica, deve per forza di cose porre al vaglio della pratica le proprie teorie. La sperimentazione quindi deve essere di casa. La Cina riformatrice è davvero diventata un’economia “capitalista”, nel senso in cui siamo abituati a parlare di capitalismo in Occidente? La risposta di Xi è chiara: “Alcuni definiscono il riformismo come un cambiamento verso i valori e il sistema politico occidentale. […]
La nostra è una riforma che ci fa proseguire sul sentiero del socialismo con caratteristiche cinesi”. (Xi Jinping, Dicembre 2012) Dirlik sostiene che il modello cinese consisterebbe nella volontà di sperimentare vari modelli ma siamo sicuri che ci sia stata, storicamente parlando, una sola versione del socialismo? In generale quando si giudica un paese in base al grado di socialismo, si ha sempre presente, sotto sotto, il modello staliniano. Si può dire che nei paesi socialisti ci sia stato un modello per ogni paese che abbia applicato il marxismo alla propria realtà. In molto paesi dell'est le terre, ad esempio non furono collettivizzate. In quasi tutti era permesso il lavoro in proprio. In alcuni paesi era consentita la piccola impresa fino a 15 dipendenti. A Cuba tuttora è concesso di detenere poderi agricoli. Per non parlare della lotta di Edward Kardelj in Jugoslavia contro la “dittatura dell'offerta” a favore dell'autogestione e dunque del mercato (non c'è autogestione senza mercato). Il socialismo di mercato ha avuto come teorico Oskar Lange in Polonia ma è stato applicato anche e soprattutto in Ungheria. Il modello cinese di socialismo di mercato è stato quello di maggiore di successo dove è stato messo in pratica. Sono oltre settecento milioni le persone strappate alla povertà assoluta in Cina, ma anche in Laos, Vietnam, Cambogia che hanno seguito il modello cinese.
Secondo Arrighi il modello cinese si è concretizzato nello sviluppo di uno schema di economia di mercato non capitalista come preconizzato da Adam Smith o un socialismo di mercato evoluto che ha superato i limiti delle applicazioni classiche in Ungheria, con il cosiddetto “socialismo al gulasch”, oppure in Polonia e Jugoslavia. Nella percezione popolare occidentale la Cina sarebbe un sistema “capitalista autoritario”. Questo tipo di idee è stato instillato da tutta la truppa cammellata del Washington Consensus (università, media ecc.) che ha insistito sul leit motiv che “non ci sono alternative al capitalismo”. Ciò che c’è di positivo (sviluppo economico) in Cina deriva dalla ricetta liberista ciò che c’è di negativo (autoritarismo) deriva dal comunismo. Le truppe di complemento per questa concezione sono nell’estrema sinistra semplificatrice. In realtà tutti i tentativi di applicare le ricette liberiste nell’Africa Subsahariana, in America latina (default argentino) e nell’ex URSS (era di Eltsin) si sono rivelati un disastro completo. Quello dei cinesi è socialismo di (più o meno) libero mercato che significa alto tasso di dirigismo statale (in modo che l'economia sia in mani nazionali e non di Wall Street) e un alto tasso di libero mercato (che significa merci e servizi con costi minimi).
L'economia di mercato socialista evita l'instabilità macro-economica del capitalismo, mentre sfrutta l'efficienza micro-economica del mercato. Una formula vincente dove è stata applicata: Cina, Vietnam, Laos, Cambogia che hanno, come si diceva, il maggior numero di gente sottratta alla povertà assoluta nel mondo. Nonostante l’ampia diffusione (in Occidente) delle teorie del collasso cinese la popolarità del sistema socialista e dei dirigenti cinesi sembra essere tra le maggiori del mondo mentre quella dei leader occidentali “democratici” appare assai bassa almeno secondo le stime dell’americana Pew Research. In Cina lo stato è più popolare che in Occidente. Esso non è visto come un nemico o uno strumento che favorisce interessi privati ma come una garanzia dell’interesse collettivo che prevale sempre sull’interesse del singolo.
La legittimità del Partito Comunista non è data solo dallo sviluppo economico impetuoso. Ci sono altri elementi che elencheremo. Il Partito ha mantenuto l’unità della nazione dopo lo smembramento cui fu sottoposta dal colonialismo e dall’imperialismo occidentale. La Cina ha però evitato la chiusura su se stessa: gli studenti vanno all’estero e hanno una conoscenza dell’Occidente maggiore di quella approssimativa e sostenuta da parecchi pregiudizi che ha l’Occidente sul paese asiatico. Pechino ha anche intrapreso la marcia verso una società socialista di diritto che ha portato nel 2005 alla libertà di manifestazione come alla diffusione e al radicamento dell’azione del sindacato. Ad esempio, lo sciopero è in generale tollerato. La legge del lavoro del 2008 è considerata tra le più avanzate del mondo. La democrazia di villaggio e la proliferazione dei microblog hanno fatto il resto. Rapidità di decisione con capacità di intervenire su elementi critici e efficienza politico-amministrativa sono la cifra dell’“autoritarismo” cinese. Un sistema di reclutamento e di valutazione delle competenze meritocratiche efficace, che segue la tradizione confuciana evitando il sistema della porta girevole ossia del passaggio dal pubblico al privato. Notevoli successi sono venuti nell’ambito della lotta alla corruzione con una netta diminuzione dei casi di appropriazione indebita da parte di funzionari pubblici.
Questi miglioramenti sono anche stati rilevati da Trasparency International, un’organizzazione finanziata dai governi liberali occidentali che giudica invariabilmente corrotto qualsiasi stato vagamente socialista. La lotta alla corruzione è molto sentita. Altrettanto sentito è l’impegno per contrastare le pratiche di esproprio di terre pubbliche da parte di privati dato che queste sono di proprietà collettiva. La legittimazione dunque non deriva solo dallo sviluppo economico, pur importante, ma dalla situazione complessiva.
Vitale nella valutazione del socialismo cinese la programmazione territoriale. In un primo tempo si sono sviluppate solo alcune zone litoranee che erano vicine a chi investiva ossia la “sinosfera” di Hong Kong, Macao, Taiwan, Singapore. Poi si è passati allo sviluppo altre zone come e le regioni sottosviluppate del Centro e dell’Ovest del paese. Inizialmente molti investimenti provenivano da cinesi residenti nelle cosiddette Tigri asiatiche e ciò significativamente avvenne nonostante le deboli garanzie per la proprietà privata in Cina. I cinesi d’oltremare, potevano contare su relazioni familiari, conoscenze culturali (guanxi) e linguistiche comuni per ottenere trattamenti privilegiati da funzionari e politici locali. Poi progressivamente Pechino si è aperta anche ad investimenti occidentali o meglio questi sono intervenuti quando non ne potevano fare a meno. Fino al 1990 gli investimenti “cinesi” erano il 75% del totale, mentre ancora adesso, sono oltre il 50% del totale.
La pianificazione territoriale ha reso più autonome le province della Cina portando all’istituzione delle zone economiche speciali, “città e regioni costiere aperte”, “zone franche” e decine di “zone di sviluppo economico e tecnologico”. Questa strategia delle Zone Economiche Speciali si calcola sia stata imitata da 140 paesi. Secondo Arrighi, a guidare i più recenti sviluppi cinesi non sarebbero stati i capitali occidentali, intervenuti solo in un secondo momento, ma piuttosto “la mobilitazione produttiva di una forza lavoro di qualità (in termini di salute, istruzione e capacità di self-management) in un mercato interno in rapida espansione”.
Dando mano libera all’imprenditoria piccola e media e alla libera concorrenza, le aziende da 10 milioni sono diventare 70 milioni in pochi anni con un’occupazione di 500 milioni di persone. Aziende dunque mediamente piccole i cui proprietari sono spesso impiegati direttamente nella produzione e naturali alleati dei lavoratori. In un primo tempo si è favorita l’occupazione labor intensive attraverso la decentralizzazione e le TVA, le aziende collettive di villaggio. Passare alla manifattura senza lasciare la campagna evitando lo spettacolo desolante degli slum nelle megalopoli, tipici del terzo mondo.
L’effetto della programmazione territoriale lo si potrà vedere nella Bohai Economic Rim, regione a Nord Est, che comprende oltre a Pechino e Tianjin (che si avviano a costruire una sola area metropolitana) anche parti delle regioni di Hebei, Liaoning e Shandong e che competeranno con le aree del Delta del Fiume delle Perle e dello Yangtze. Un altro miracolo della programmazione territoriale cinese è stata Chongqing. Il fattore più importante che ha contribuito alla crescita della città è stata l’iniziativa “Go West” per portare lo sviluppo economico anche nelle zone più arretrate dell’Impero di Mezzo e ridurre le disuguaglianze territoriali che sono parte importante di quelle complessive».
65. G. Cadoppi, Un libro fondamentale per capire le dinamiche dell’economia mondiale, Marx21 (web), 17 febbraio 2017.