8.02. L'EVOLUZIONE VERSO I DIRITTI E LA DEMOCRAZIA NEL '900
Gli studiosi borghesi tendono a operare la distinzione classica tra tre regimi politici principali: nazifascismi, democrazie popolari (regimi comunisti) e democrazie liberali. In questa tripartizione abbiamo visto come si tenda a squalificare i primi due accomunandoli sotto la categoria del “totalitarismo”, mentre si tende a privilegiare l’idea che i diritti e le libertà siano stati garantiti solo nelle democrazie liberali. Lasciamo da parte la critica marxiana della democrazia liberale e analizziamo i fatti storici: in realtà il nesso tra democrazia e liberalismo non è sempre stato tale, ma è una costruzione storica assai recente, diventata di massa solo dopo la seconda guerra mondiale in chiave anticomunista. Ancora per tutto il XIX secolo, infatti, i liberali proclamano la libertà in antitesi alla democrazia intesa come suffragio universale e diritti per tutti. Il liberalismo viene invece presentato come un “giusto mezzo” tra gli estremi della monarchia assoluta (tirannia) e il regime giacobino ultra-egualitario e democratico. Il modello ideale dei liberali è quindi la monarchia costituzionale, fondata su principio di rappresentanza, suffragio ristretto su base censitaria e diritti civili ma non sociali. In questo modello emergono le questioni dell’inclusione e della libertà. Chi deve poter godere dei diritti secondo l’ideologia liberale? Non le donne, per le quali vige la questione femminile portata avanti dalle suffragette e dai movimenti femministi socialisti. Non i popoli coloniali e le etnie-nazioni non europee: permane a lungo anche da parte di Gran Bretagna e USA la questione della schiavitù, la segregazione razziale e un profondo razzismo. Anche dopo l’abolizione formale della schiavitù (1833 per la Gran Bretagna, 1865 per gli USA) tali fenomeni continuano nelle colonie, diminuendo solo quando i bianchi si trovano in maggioranza demografica: di qui l’autogoverno concesso dagli inglesi a paesi come Canada, Australia e Nuova Zelanda. La restrizione dei diritti ai popoli coloniali resta effettiva in molti casi fino agli anni ‘60-‘70 del Novecento. La terza restrizione imposta dai liberali nel godimento dei diritti riguarda i poveri: è cioè la questione del censo; il liberalismo a lungo ha rifiutato la democrazia di massa, assegnando il godimento dei diritti politici solo ai possidenti. Ancora nel 1861 il suffragio universale è rigettato da John Stuart Mill. Risale al 1848 a Parigi il primo governo provvisorio repubblicano-socialista in cui entra un operaio (Martin, detto Albert). Uno dei maggiori teorici della democrazia liberale, Tocqueville, in La democrazia in America (1840) esalta il modello schiavista degli USA opponendosi strenuamente al movimento socialista (in particolar modo all’affermazione dei diritti sindacali) e al suffragio universale. Tocqueville non esita invece ad appoggiare le guerre coloniali per l’esportazione della civiltà. Il suo punto di vista è quello del primato della libertà inteso come difesa della proprietà individuale. In tal senso diventa possibile tracciare una linea di continuità tra Tocqueville, Disraeli, Gobineau, USA e Hitler. Il superamento delle restrizioni ai diritti viene rivendicato tra ‘800 e ‘900 progressivamente attraverso la primaria richiesta dell’allargamento del suffragio: anzitutto è fondamentale il ruolo della II Internazionale (1889-1914) nella rivendicazione del suffragio universale maschile. I partiti di massa moderni nascono in tutto l’Occidente in reazione all’espansione dei socialisti, i primi a fondare organizzazioni popolari di massa. Per quanto riguarda il raggiungimento del suffragio universale assoluto (ossia per le donne e i popoli coloniali) è decisivo il ruolo svolto dalla III Internazionale e dalle organizzazioni comuniste. Canfora mostra bene come solo un regime elettorale proporzionale (a dispetto di quello maggioritario) sia però realmente democratico e tale diventa la rivendicazione storica dei comunisti nel ‘900, ottenuta però solo in brevi periodi storici anche nelle democrazie liberali più avanzate. I diritti politici sono diventati la base di rivendicazione dei diritti sociali, ossia:
- la tassazione progressiva e patrimoniale è stata ferocemente osteggiata dai liberali;
- l’espansione del welfare state (pensioni, assicurazioni sociali, diritti sindacali, istruzione, sanità, trasporti) è stata ottenuta sotto la pressione di una durissima lotta di classe;
- per pervenire al controllo macroeconomico da parte degli enti pubblici (pianificazione, keynesismo e abbandono del liberismo) e ad un nuovo concetto di liberalismo (1945-75) sono stati determinanti lo stimolo dato dall’esempio dell’URSS e la crisi del modello liberista (1929) che hanno precipitato il mondo verso la seconda guerra mondiale.
In generale l’intreccio tra il liberalismo e l’antifascismo è figlio soltanto della seconda guerra mondiale ed è la base delle costituzioni antifasciste; l’innesto dell’idea della “democrazia sociale” in Occidente nasce dall’incontro tra ideologie liberali e socialiste in un processo appoggiato dall’URSS di Stalin ma ostacolato dalla guerra fredda (1945-1991): le democrazie liberali, infatti, continuando ad essere paesi imperialisti hanno favorito l’avvento di dittature in chiave anticomunista in ogni parte del mondo e mantenuto il “fattore K” (ostracizzazione verso i comunisti al governo) in Europa occidentale. La Germania occidentale non ha esitato a recuperare i nazisti in ottica anticomunista mentre in Francia, già nel 1958, Charles De Gaulle è giunto a smantellare la Costituzione antifascista, abolendo il sistema elettorale proporzionale e ripristinando un sistema elettorale uninominale che consente oggi ad un candidato che ha ottenuto poco più di un quarto dei voti validi al primo turno di accaparrarsi oltre il 70% dei seggi parlamentari. Storicamente i liberali si sono insomma trovati molto più a proprio agio a fianco dei fascisti piuttosto che dei comunisti. Tra le tendenze più recenti (dagli anni ‘80 ad oggi) si può notare il ritorno della coincidenza tra liberalismo e liberismo, con il conseguente abbandono del paradigma della democrazia sociale; a livello elettorale si privilegia sempre più il ritorno a sistemi elettorali maggioritari con soglie di sbarramento, alla democrazia indiretta e alla restrizione del suffragio (si pensi al caso dell’UE). In assenza di un forte movimento comunista e del blocco sovietico a fare da pungolo per lo sviluppo dei diritti sociali, insomma, le democrazie liberali stanno regredendo al loro livello ottocentesco. La retorica democratica con cui si pretende di giudicare il resto del mondo, mai stata credibile nel corso del ‘900, diventa sempre più un insulto all’intelligenza umana.
- la tassazione progressiva e patrimoniale è stata ferocemente osteggiata dai liberali;
- l’espansione del welfare state (pensioni, assicurazioni sociali, diritti sindacali, istruzione, sanità, trasporti) è stata ottenuta sotto la pressione di una durissima lotta di classe;
- per pervenire al controllo macroeconomico da parte degli enti pubblici (pianificazione, keynesismo e abbandono del liberismo) e ad un nuovo concetto di liberalismo (1945-75) sono stati determinanti lo stimolo dato dall’esempio dell’URSS e la crisi del modello liberista (1929) che hanno precipitato il mondo verso la seconda guerra mondiale.
In generale l’intreccio tra il liberalismo e l’antifascismo è figlio soltanto della seconda guerra mondiale ed è la base delle costituzioni antifasciste; l’innesto dell’idea della “democrazia sociale” in Occidente nasce dall’incontro tra ideologie liberali e socialiste in un processo appoggiato dall’URSS di Stalin ma ostacolato dalla guerra fredda (1945-1991): le democrazie liberali, infatti, continuando ad essere paesi imperialisti hanno favorito l’avvento di dittature in chiave anticomunista in ogni parte del mondo e mantenuto il “fattore K” (ostracizzazione verso i comunisti al governo) in Europa occidentale. La Germania occidentale non ha esitato a recuperare i nazisti in ottica anticomunista mentre in Francia, già nel 1958, Charles De Gaulle è giunto a smantellare la Costituzione antifascista, abolendo il sistema elettorale proporzionale e ripristinando un sistema elettorale uninominale che consente oggi ad un candidato che ha ottenuto poco più di un quarto dei voti validi al primo turno di accaparrarsi oltre il 70% dei seggi parlamentari. Storicamente i liberali si sono insomma trovati molto più a proprio agio a fianco dei fascisti piuttosto che dei comunisti. Tra le tendenze più recenti (dagli anni ‘80 ad oggi) si può notare il ritorno della coincidenza tra liberalismo e liberismo, con il conseguente abbandono del paradigma della democrazia sociale; a livello elettorale si privilegia sempre più il ritorno a sistemi elettorali maggioritari con soglie di sbarramento, alla democrazia indiretta e alla restrizione del suffragio (si pensi al caso dell’UE). In assenza di un forte movimento comunista e del blocco sovietico a fare da pungolo per lo sviluppo dei diritti sociali, insomma, le democrazie liberali stanno regredendo al loro livello ottocentesco. La retorica democratica con cui si pretende di giudicare il resto del mondo, mai stata credibile nel corso del ‘900, diventa sempre più un insulto all’intelligenza umana.