«Fu attuata una terapia di shock – come ad esempio la decisione del governo di ridurre del 50%, da un giorno all’altro, gli acquisti delle merci prodotte delle aziende di Stato, per lasciare il “libero mercato” allocare le merci secondo il meccanismo, sconosciuto all’economia sovietica, della “domanda/offerta” – il che in un’economia pianificata può voler dire solo introdurre il caos per decreto, se prima non si è costruita un’infrastruttura e una serie di meccanismi in grado di assorbire la merce e i capitali. Misure come queste possono avere senso solo se spiegate così: furono imposte sulla spinta degli estremisti liberisti, nell’illusione che il “mercato” fosse la risposta a tutti i problemi, e messe in pratica solo per far in modo che le mafie sviluppatesi sotto l’ombrello della seconda economia potessero mettere mano sulla merce sottratta al monopolio di Stato, garantendo l’arricchimento smisurato degli approfittatori. I rapporti sociali covati e generati da questa economia capitalistica non riconosciuta entravano infine e improvvisamente in conflitto diretto coi rapporti di produzione prevalentemente socialisti, in maniera del tutto antagonistica e senza mediazione del partito e degli organi di governo privi di obiettivi chiari. E infatti andò proprio così. Il conflitto prese la forma di elementi degenerati del Partito i quali, sotto influenza della corruzione, delle reti informali paramafiose di arricchimento, dell’egemonia culturale ultraliberista in provenienza occidentale (di moda nei nuovi think thank economici liberali di Mosca), fecero deragliare le “riforme” verso il mai previsto smantellamento del socialismo. Altrimenti detto, gli elementi protocapitalistici che per decenni erano stati occultati e gestati colpevolmente emersero all’improvviso e presero una forma controrivoluzionaria e anti-partito sull’onda di riforme mal concepite, avventate e mal gestite, applicate sotto ricatto imperialistico, che distrussero in 5 anni la prospera economia socialista costruita in 70 anni di immani fatiche.
Se l’obiettivo era migliorare le performance economiche dell’industria leggera, e riorientare quanto possibile alcuni settori elevando gli standard di qualità, la via intrapresa sorpassava questo intento economicista per prendere chiari connotati politici: la restaurazione pura e semplice del capitalismo. La mancanza di beni di prima necessità infatti, è opportuno ricordarlo a chi ancor oggi blatera di “comunismo che aveva ridotto i cittadini alla fame”, data di questo periodo – 1985-1991- ossia del periodo in cui il socialismo era messo sotto prova di “riforme” che in realtà avevano preso la forma di capitalismo nascente e stavano disarticolando inconscientemente l’intera catena produttiva sovietica. Non era il socialismo a non funzionare – nel senso che i problemi economici esistevano, ma avevano proporzioni relativamente controllabili e per altro erano identificati dalla parte più cosciente del partito che cercava di porvi rimedio – ma piuttosto la sua riforma in senso liberale sfuggiva di mano a tutti, tranne ai capitalisti in erba che covavano sotto le ceneri dei disfunzionamenti di una parte dell’economia socialista e che trovarono più semplice convincere le istanze decisionali di governo a distruggere tutto, piuttosto che operare un ben più complesso, dettagliato, graduale processo di aggiustamento degli aspetti problematici».81