7.1. L'ANALISI DEL LINGUAGGIO NELLA TRADIZIONE MARXISTA
La questione del linguaggio non è secondaria per le classi dominanti, anzi è uno degli strumenti funzionali al mantenimento del proprio dominio sulle classi subalterne. Nel marxismo, benché non sia stata formulata una teoria della lingua e del linguaggio, si possono trovare indicazioni e premesse orientative per procedere in questo senso e per comprendere, tra l’altro, l’uso che del linguaggio viene fatto da parte delle classi dominanti al fine di conservare il proprio predominio politico, culturale e ideologico. Esempi di tale uso sono forniti dai modi linguistici adottati dai mezzi di comunicazione di massa (mass media), da molti testi scolastici e dalle espressioni adoperate nell’ambito dei vari settori specialistici della cultura, della produzione e della pubblica amministrazione (leggi, decreti, circolari, ecc.)67. Scrive Romano Luperini:
«il potere, per Gramsci, non si regge solo sulla forza della coercizione, ma anche sull’egemonia culturale. Lo studio del potere si configura nel suo pensiero come analisi di un’egemonia che passa anche attraverso il linguaggio. Pur essendo vissuto in un’età assai diversa da quella attuale, caratterizzata dalla rivoluzione informatica, Gramsci è stato infatti il primo ad avvicinarsi a una verità che è ormai sotto gli occhi di tutti: fra potere del linguaggio e linguaggio del potere non c’è più alcuna differenza. Il potere, per un verso, è sempre più espressione della produzione-diffusione del linguaggio come merce; per un altro, di conseguenza, è sempre più consustanziato con il linguaggio, è linguaggio. Il feticismo del linguaggio che nasce e si sviluppa nelle università occidentali non è che l’altra faccia del feticismo della merce. Ciò comporta una prima conseguenza: una rivoluzione in Occidente non è concepibile se non come rivoluzione culturale. Con il suo discorso sul potere come egemonia culturale, Gramsci dà un potente contributo a questo tipo di coscienza»68.Stalin ricordava in una delle sue ultime opere che:
«la lingua, in quanto mezzo di comunicazione degli uomini in seno ad una società, serve in eguale maniera tutte le classi della società e mostra a questo riguardo una sorta di indifferenza verso le classi. Ma gli uomini, i singoli gruppi sociali e le classi sono lungi dall’essere indifferenti nei confronti della lingua. Essi si sforzano di utilizzare la lingua per i loro interessi, di imporle il loro particolare lessico, i loro particolari termini, le loro particolari espressioni»69.Molti anni prima già Lenin polemizzava sull’utilizzo strumentale di certe parole d’ordine: «La libertà è una grande parola, ma sotto la bandiera della libertà dell’industria si sono fatte le guerre più brigantesche, sotto la bandiera della libertà del lavoro i lavoratori sono stati costantemente derubati»70. Una pratica stigmatizzata e immortalata in termini poetici anche da Bertolt Brecht in una delle sue opere più famose: «Siamo sempre di meno. Le nostre / parole d’ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole / le ha stravolte il nemico fino a renderle / irriconoscibili»71. Da tutto ciò si capisce come Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini abbiano potuto in tempi recenti denominare i propri movimenti politici reazionari “Popolo delle Libertà” e “Futuro e Libertà”, appropriandosi indebitamente di due parole (“popolo” e “libertà”) da sempre patrimonio della tradizione culturale progressista. Si potrebbe aggiungere che la stessa parola “democrazia”, che oggi nel senso comune tende ad esprimere saldamente l’idea di un regime politico liberale borghese fondato sul pluripartitismo parlamentare, non sia altro che il risultato di un processo di semantizzazione ottenuto al termine di un secolo (il “secolo breve”) in cui a scontrarsi sono stati due differenti modelli di democrazia proposti dai sistemi socialisti e capitalisti. I paesi socialisti novecenteschi infatti, definiti come “totalitari”, “dittatoriali” o “dispotici” dalla borghesia, hanno sempre ribadito fin dal proprio nome (si pensi ad esempio alla “Repubblica Democratica Tedesca”) la volontà di garantire una reale democrazia, fondata sulla partecipazione popolare e sul primato dei diritti sociali rispetto a quelli politico-civili, condizione considerata essenziale per poter estendere la democrazia a livelli più elevati. Ma questo paradigma ideologico è uscito vinto in Occidente, in particolar modo dopo la sconfitta subìta con la caduta del muro di Berlino e tutti gli eventi conseguenti. Da segnalare ciò che pensa Noam Chomsky del termine “democrazia” così come viene usato dalle classi dominanti:
«la parola “democrazia” assume un significato orwelliano quando viene usata in svolazzi retorici o in normali servizi giornalistici per indicare gli sforzi degli Stati Uniti di stabilire forme di governo “democratiche”. Il termine indica i sistemi in cui il controllo delle risorse e degli strumenti di violenza attribuisce il potere agli elementi funzionali ai bisogni della potenza statunitense»72.E ancora:
«dalla paradossale concezione di democrazia imposta dagli interessi delle élite, deriva poi l’altrettanto paradossale distinzione tra “Stati democratici” (o “moderati”) e “Stati fuorilegge” (rogue states). Esiste un doppio uso del termine “stato fuorilegge”: uno di tipo propagandistico, applicato ai nemici in genere, e uno letterale, applicabile agli Stati che non si considerano vincolati alle leggi internazionali»73.L’uso politico del linguaggio è quindi un elemento di primaria considerazione, in grado di agire sul lungo termine in senso profondo sull’ambito culturale più o meno inconscio delle persone. Non a caso Lenin ricordava pedagogicamente la necessità di imparare «a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste o quelle classi», al fine di evitare di essere sempre politicamente «vittime ingenue degli inganni e delle illusioni»74. O, per dirla alla Don Milani: «l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone». Superfluo quindi ribadire la necessità di studiare, ricercare e approfondire, per conoscere e capire la realtà.
67. E. Mascitelli, Dizionario dei termini marxisti, Vangelista-CCDP, Milano, 1977, voce Lingua e linguaggio, pp. 190-192.
68. R. Luperini, I quaderni di acquallagola, suppl. di Trentadue – l’Ecoapuano (a cura di ANPI e Fiap di Carrara), n° gennaio-febbraio 2015.
69. J. Stalin, Riguardo al marxismo nella linguistica, Pravda, 20 giugno 1950.
70. V. Lenin, Che Fare?, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 38.
71. B. Brecht, A chi esita, 1937.
72. N. Chomsky, La fabbrica del consenso, Marco Tropea Editore, Milano 1998, pp. 431-432
73. N. Chomsky, Egemonia americana e “Stati fuorilegge”, Edizioni Dedalo, Bari 2001, p. 15.
74. V. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, Prosvestcenie, n° 3, marzo 1913, all’interno di V. Lenin, Opere Complete, vol. XIX (marzo–dicembre 1913), Editori Riuniti, Roma 1967, p. 13.