6.9. SOLZHENITSYN: UN ARCIPELAGO DI MENZOGNE
Non può essere omesso un approfondimento sullo scrittore antisovietico più famoso della Storia, la cui opera principale è diventata un punto di riferimento non solo all’interno degli ambienti della borghesia, ben consci della faziosità del libro, ma purtroppo anche tra i settori progressisti che, anche sulla spinta di tali opere pompate nel mercato editoriale da parte dalla CIA, hanno accolto a questo punto a braccia aperte le idee della Arendt sulla realtà totalitaria e dispotica del regime sovietico.
Lasciamo la parola ad un’analisi completa realizzata da Luca Baldelli14.
Lasciamo la parola ad un’analisi completa realizzata da Luca Baldelli14.
«Aleksandr Isaevic Solženicyn. Su di lui sono stati sprecati fiumi d’inchiostro, che da 60 anni hanno alimentato e riempito, in occidente, i bacini lacustri della più sfrenata propaganda contro l’URSS. Solženicyn è assurto a vate indiscutibile ed insindacabile, ad ineffabile autorità in sede storica e storiografica, a mito, a totemica entità la cui analisi e critica equivale ad un tabù inviolabile. […] Si è sempre sostenuto, e lo si afferma con la ritualità del mantra, che il monumentale Arcipelago Gulag sarebbe uno spaccato di estremo, brutale verismo sulla realtà concentrazionaria sovietica; stessa cosa per Padiglione cancro. Si pretende, poi, che Una giornata di Ivan Denisovič sia il ritratto fedele, quasi fotografico, del recluso tipo. Si assicura che la sorte di Matriona è stata quella della stragrande maggioranza delle donne sovietiche, con relative famiglie, nel malvagio e anzi demoniaco ordinamento economico kolchoziano dell’URSS. Si certifica infine, con il timbro scolorito ma pervicacemente imbrattante della greuelpropaganda antistaliniana, che Stalin ha avuto sulla coscienza ben 60 milioni di cittadini, repressi e fatti fuori in vari modi. Sempre perché a dirlo è stato Solženicyn, e se lo dice lui… Guai a dubitare! Innanzitutto, per comprendere l’opera di un autore è bene dare un’occhiata alla sua biografia: essa, lungi dal rappresentare un inutile orpello, una digressione da lasciare al capitolo varie ed eventualità, rappresenta l’ossatura di una visione del mondo, di un modo di agire e di rapportarsi alla realtà.
Chi è, dunque, Aleksandr Isaevič Solženicyn? Nasce a Kislovodsk, nel Caucaso del Nord, l’11 dicembre 1918, mentre infuria la guerra civile scatenata dai bianchi reazionari, con l’appoggio attivo delle potenze imperialiste mondiali. Il padre, Isakij, giovane ufficiale dell’esercito, è la prima pedina della disinformazione orchestrata da Solženicyn in prima persona, e dalle centrali antisovietiche: infatti, non è il povero, umile maestro schiaffato dinanzi la pubblica opinione mondiale da un figlio sempre pronto a vestire abusivamente gli improbabili panni del povero, ma il rampollo di una facoltosa famiglia, con a capo un ricco proprietario terriero. A smascherare la bugia delle “umili origini” non saranno né la TASS, né la Novosti, né la Pravda o altri organi ufficiali del PCUS e del Governo sovietico, ma la borghesissima rivista amburghese Stern nel 1971. Nel 1917, leggiamo nel numero dell’insospettabile rivista, Isakij Solženicyn sposa Taisia Scherbak, a sua volta figlia di un ricco possidente, Zachar Scherbak, padrone di vaste estensioni di terreno nel Kuban, selvaggia e affascinante landa cosacca. Taisia cresce in una villa principesca, del tutto simile ad un antico maniero e convola a nozze, come abbiamo visto, con un uomo dello stesso rango sociale. Quando è già incinta di Aleksandr, il futuro scrittore, Isakij muore: ufficialmente, si parlerà sempre di un incidente di caccia, ma non poche voci insinueranno, con insistenza, la tesi del suicidio. Il quadretto familiare, però, non è completo: Isakij è infatti figlio di Semjon Efimovič Solženicyn, che con i suoi cinque figli (quattro maschi e una femmina) amministra una tenuta di circa 200 ettari, con capi di bestiame in abbondanza, ed è pure influente membro del consiglio di amministrazione della Banca di Rostov. Insomma, una stirpe che naviga nell’oro e fa il bello e il cattivo tempo, non solo soggiogando i contadini al più bieco sfruttamento, ma controllando anche i decisivi rubinetti del credito, grazie ai quali può agevolmente eliminare concorrenti scomodi e pretenziosi.
Aleksandr Isaevič Solženicyn, il personaggio al centro delle nostra disamina, nasce, come abbiamo visto, nel 1918, nella casa della zia Irina, moglie di Roman Scherbak, fratello della madre Taisia. Sarà proprio Irina a rivelare la vera storia dei Solženicyn alla Stern. Roman, grazie anche alla dote della moglie, che rimpingua ulteriormente i suoi non certo trascurabili averi, conduce una vita da nababbo, compiendo frequenti viaggi all’estero e acquistando automobili di lusso: negli anni antecedenti alla Prima guerra mondiale è proprietario di una delle nove Rolls Royce immatricolate in Russia. Con la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, per la famiglia Solženicyn il vento cambia: il popolo, sfruttato e angariato da secoli di dominazione, presenta il conto a lorsignori! Le immense ricchezze, guadagnate sul sudore e sul sangue di tanti figli della terra, vengono confiscate e redistribuite tra chi non aveva mai avuto nulla, nemmeno un pezzo di terra dove piantare la cipolla per la zuppa. Più tardi, negli anni ’30, su quelle immense estensioni sorgerà il Kolkhoz “Kirov”.
Qui, tra l’altro, almeno fino agli anni ’70 lavorerà Ksenia Vasiljev’na Zagorina, cugina di Solženicyn. Torniamo però, dopo questa breve digressione, ai primi anni del potere sovietico. Taisia, madre vedova, davanti alla sorte avversa si trasferisce a Rostov sul Don, dove trova subito impiego come dattilografa e stenografa. Il potere sovietico, intransigente verso gli sfruttatori e i prepotenti, ma giusto e umano come nessun’altro, non nega un onesto lavoro ad alcuno, nemmeno ai rampolli della più avida borghesia spodestata, i quali invece il lavoro, e finanche la sopravvivenza, l’avevano negati a generazioni intere. Bisogna poi sottolineare che, se da un lato le proprietà terriere della famiglia Solženicyn e dei parenti vengono confiscate, la stessa sorte non subiscono gli averi accumulati in anni e anni, specie tesori, gioielli e denaro. Certi pingui forzieri nessuno va a scovarli, anche perché i provvedimenti varati nel corso degli anni dall’“illiberale” potere sovietico, fino alla Costituzione del 1936, tutelano in maniera rigida l’inviolabilità del domicilio. Il piccolo Aleksandr cresce con la passione per la lettura, ma anche con l’ostilità larvata verso ogni ordinamento teso a cancellare le differenze sociali: questo è il retaggio familiare, insopprimibile, che ne influenza il carattere. Mentre altre famiglie già titolari di cospicue ricchezze si adattano al nuovo sistema sovietico, e anzi i loro membri si costruiscono nuove carriere, circondati dalla stima e dall’apprezzamento di tutti, i Solženicyn, almeno in parte, si mostrano recalcitranti e quasi attendono, con messianica tensione, il momento di un rivolgimento che restauri la situazione passata, il “bengodi” perduto. È in questo milieu che si formano il pensiero e la visione del mondo del futuro scrittore. Adolescente, si rifiuta di entrare a far parte dei Pionieri e va regolarmente in Chiesa: la pratica religiosa, del resto, non è affatto proibita e, negli anni ’30 sarà semmai la propaganda ateista a venire ostacolata, sotto la guida saggia ed equilibrata del compagno Stalin, anche per gli eccessi compiuti da trockijsti ed elementi estremisti negli anni precedenti. L’atteggiamento di Aleksandr Solženicyn non gli preclude alcun riconoscimento e tantomeno alcun diritto: a dispetto delle origini borghesi, condizione questa, secondo la falsa propaganda anticomunista e antisovietica, che gli impedirebbe gli studi e l’avanzamento professionale, Solženicyn, dopo brillanti studi superiori, accede senza problema all’Università statale di Rostov.
Nell’URSS si tiene conto unicamente del merito, delle capacità e dei risultati acquisiti nello studio e nel lavoro, non della discendenza familiare o delle raccomandazioni, come avviene nel mondo capitalista, dove gli avvocati sono figli di avvocati, i notati figli di notai e i farmacisti figli di farmacisti. Non solo: alla faccia della pretesa (sempre della propaganda anticomunista) pianificazione vincolata e vincolante delle scelte dei singoli riguardo a Facoltà e indirizzi, Solženicyn sceglie, malgrado i consigli e le aspettative di insegnanti e amici, la Facoltà di Fisica e Matematica, anziché un indirizzo umanistico – letterario.
“Mi sono orientato, dirà, verso queste materie non tanto per vocazione, quanto per la presenza di insegnanti assai preparati e stimolanti”. Dalla viva voce di un acerrimo anticomunista, quindi, veniamo a sapere che la libertà di scelta era, nella “tremenda” URSS staliniana, popolata di trinariciuti elfi e bestiali creature mortifere, assolutamente sancita e rispettata e che l’insegnamento era tutto fuorché piatto, noioso, ideologico come qualche corifeo della borghesia ha ripetuto per anni e ancora oggi pretende di far credere. Alla faccia del lignaggio borghese, dei latifondi dove non tramontava mai il sole, del persistente atteggiamento di ostilità verso il governo sovietico, malgrado l’iscrizione al Komsomol, atto puramente formale, non seguito da alcun tipo di impegno, Solženicyn viene premiato più volte: studia con profitto, applicazione e costanza e arriva a conseguire la Borsa di Studio “Stalin”, la più elevata per ammontare nel generosissimo, anzi ineguagliato, sistema sovietico di sostegno alla promozione dell’istruzione. Nel 1941, Aleksandr si laurea a pieni voti. Non condivide la sorte di tanti laureati disoccupati nell’odierno sistema capitalista, bensì ottiene immediatamente un posto di ricercatore di II livello e lettore (figura intermedia, quest’ultima, tra il docente e l’assistente). Poco dopo, gli organi di Facoltà lo raccomandano per altri incarichi.
Non è tutto: nel ’39 Solženicyn ha pure cominciato gli studi presso l’Istituto di Filosofia, Letteratura e Storia di Mosca, con la modalità della formazione a distanza. E sì, in quel preteso inferno chiamato convenzionalmente URSS, anche chi non può seguire direttamente più corsi, per ovvi motivi legati alla mancanza di divina ubiquità, può farlo con la mediazione dell’istruzione per corrispondenza. Avendo il futuro assicurato e la protezione accordata dalla culla alla tomba, grazie al sistema sovietico, Solženicyn, non ancora conseguita la laurea, si sposa nel 1940 con Natalja Rešetovskaja, dalla quale più tardi divorzierà. Può permetterselo, diversamente da tanti suoi coetanei dimoranti nel “mondo libero” e sotto lo stivale delle dittature fasciste. Al momento dell’invasione nazista dell’URSS, incoraggiata da tutti i circoli imperialisti, e non voluta soltanto da Hitler, Solženicyn viene arruolato nell’Armata Rossa. Anche in questo caso, il sistema sovietico non solo non lo punisce e non lo ghettizza per il suo albero genealogico, da lui nascosto ma ad altri ben noto, bensì lo premia: distintosi sul campo, viene decorato e promosso fino al grado di Capitano. La riconoscenza è il suo forte, pertanto ricompensa il governo sovietico che l’ha innalzato su un palmo di mano con l’avvio di un’attività mirata al rovesciamento del socialismo! Un’attività eversiva che, scoperta in tempo dagli organi inquirenti, gli procura, ovviamente, non un premio, ma l’arresto e la condanna ad 8 anni per propaganda antisovietica (Art. 58, Comma 10 del Codice Penale) e l’organizzazione di un gruppo antisovietico (Art. 58, Comma 11 del Codice Penale). Di certo, visti gli apprezzamenti espressi nelle sue opere e nei suoi interventi per i collaborazionisti guidati da Vlasov, generale traditore dell’Armata Rossa, c’è da ritenere, ragionevolmente, che quelle accuse fossero in gran parte vere! Ciò che più dà la misura del personaggio, però, anche in questa circostanza, è il contegno tenuto nel contesto dell’interrogatorio e del processo: Solženicyn, al quale peraltro nessuno torce un capello malgrado la sua narrazione bugiarda, coinvolge nelle sue trame anche gente del tutto innocente, che infatti, a riprova di quanto il sistema giudiziario sovietico sia onesto e scrupoloso, specie nel vagliare prove e dichiarazioni, non verranno mai arrestate e non conosceranno la sorte dello scrittore. Nei verbali dei suoi interrogatori, ripercorsi dall’amico Nikolaj Vitkevič, anche lui condannato per propaganda antisovietica, in una lettera a Novosti del 1974, il futuro scrittore tira in ballo persino sua moglie, Natalja Rešetovskaja, gli amici Kirill Simonjan, Lidia Ezherets (consorte di Simonjan) ecc… Confessioni estorte? Vitkevič, che non ne aveva fatte di simili all’NKVD, anzi aveva negato tutto, evidentemente non fu obbligato con la forza a rilasciare una testimonianza compiacente verso l’accusa, ma l’esclude. “Il giorno in cui, liberato, vidi i protocolli dell’interrogatorio di Solženicyn, scrive Vitkevič nella citata lettera, fu il più raccapricciante della mia vita. Questi protocolli dicevano di me cose che non mi ero neppure sognato”. Solženicyn, per apparire “bello” ai giudici, coinvolge altre persone del tutto innocenti nelle sue trame, all’insegna di “muoia Sansone con tutti i filistei”, assolutamente riprovevole. Più tardi, nel libro La quercia e il vitello, a metà tra l’autobiografico e lo storico, darà prova della consueta attitudine alla manipolazione delle altrui idee e frasi: infatti, qualificherà le dichiarazioni del suo vecchio amico come una sorta di manovra del KGB e un espediente per non perdere i vantaggi della carriera, quando Vitkevič era uno scienziato stimato da tutti, scevro da ogni problema di “accreditamento” presso questo o quel centro di potere. Solženicyn sosterrà anche che Vitkevič, prima di quella lettera a Novosti, non aveva più parlato con lui da anni, anche solo per contestargli un comportamento rinfacciato poi nello scritto. Ciò, a causa di una sorta di senso di colpa. Falso! Vitkevič (condannato a 10 anni contro gli 8 di Solženicyn alla faccia della contiguità al “sistema”!), nella lettera a Novosti dice ben altro, tratteggiando alla perfezione la personalità di Solženicyn. Ecco le sue precise parole: “Quando m’incontrai di nuovo con Solženicyn, non gliene parlai mai (dei fatti inerenti la carcerazione, ndr). Il nostro ultimo incontro ebbe luogo a Rjazan, ove insegnavo in un istituto di medicina, nel 1964. Conoscendo il mio amico ero certo che si sarebbe considerato dalla parte della ragione ed avrebbe detto che era suo compito precipuo salvare per la Russia quel grande scrittore che era”.
Altro che malafede di Vitkevič! Semplicemente costui non voleva perder tempo a pestare acqua nel mortaio della presunzione del “gulagologo”. Altra grande falsità riferita a Vitkevič e messa nero su bianco da Solženicyn: nella famosa lettera a Novosti, che si può leggere integralmente tra l’altro nell’agile ed utilissimo libro Risposta a Solženicyn – L’Arcipelago della menzogna edito nel 1974 da Napoleone, con la collaborazione in primis della Novosti, Vitkevič avrebbe detto che nel 1945 l’istruttoria fu condotta in modo irreprensibile dal giudice: a parte il fatto che un giudizio simile sarebbe stato tutt’altro che fuori luogo, faccio notare che Vitkevič, in tutto il testo, non riporta assolutamente questo concetto. Anzi, afferma l’esatto contrario rispetto alla dinamica del pronunciamento della sua condanna: “Ebbi l’impressione d’essere stato trattato con ingiustificata severità, ma ritenni che ciò fosse dovuto al fatto che ero stato processato al fronte ed al rigore del periodo bellico”.
Ad ogni modo, tornando strettamente alla biografia di Solženicyn, le cose per lui non vanno affatto male sotto la grande stella rossa sovietica. Scontata la pena, il 13 febbraio 1953, il “nostro” viene liberato e si stabilisce, per volontà delle autorità in Kazakhstan: dietro di lui si chiudono, per sempre, le porte del campo correttivo, quel Gulag che non solo non l’ha ucciso, ma lo renderà, una ventina di anni dopo, ricco e famoso. Le autorità gli trovano immediatamente un impiego come insegnante di matematica e fisica in una scuola secondaria (che spietatezza, questo regime sovietico!) I suoi compagni di detenzione, dal filosofo e pensatore Dmitrij Panin fino a Lev Kopelev, critico letterario, escono tutti dal Gulag in salute e trovano anch’essi, immediatamente, un’occupazione. Moriranno quasi tutti in tarda età in URSS, senza essere molestati da alcuno, o nei salotti dorati dei circoli capitalistico – borghesi del mondo occidentale. Nel 1954 Solženicyn, grazie all’eccellente sistema sanitario sovietico, universalista, gratuito e realmente a misura d’uomo, viene operato a causa di un carcinoma. L’operazione avviene nel 1954 a Tashkent (alla faccia del presunto domicilio coatto!) ed è coronata da successo. Il perfido e demoniaco potere sovietico, dunque, salva la vita del suo acerrimo nemico Solženicyn. Lo scrittore, invero, aveva già subito un’altra operazione vitale: la rimozione di un tumore ad un testicolo, nell’anno 1952, mentre si trovava in detenzione. Dunque, il Gulag non solo non è un “arcipelago” votato allo sterminio, ma in esso il cittadino sovietico trova le stesse cure che troverebbe in libertà. Di certo, nei campi di lavoro correttivo, nelle varie prigioni che popolano la letteratura anticomunista e antisovietica, non solo di Solženicyn, non vi sono le tremende condizioni che si possono sperimentare ad Alcatraz o in altri ameni contesti del mondo capitalista, dove i prigionieri muoiono di maltrattamenti, di consunzione e, magari, di malattie deliberatamente non curate. In nessun carcere del tremendo “Arcipelago Gulag” accade quel che avverrà nel 1971 nel carcere statunitense di Attica dove, per ordine del governatore di New York Nelson Rockefeller, la polizia attaccherà in forze una rivolta di prigionieri, lasciando quasi 40 morti sul terreno. Solženicyn non ha parole di gratitudine nemmeno per la chirurgia sovietica e per gli umanissimi medici che, anche nel Gulag, lo salvano da una morte che, siamo agli inizi degli anni ’50, sarebbe certa anche per i più benestanti, visto lo stadio delle conoscenze e delle esperienze nel campo della cura dei tumori. No, in Padiglione Cancro (Rakovij Korpus), non trova di meglio da fare che buttare in faccia al lettore il solito panorama oscuro e tetro del microcosmo concentrazionario sovietico, senza rispetto, riguardo e decenza nemmeno per la sua storia personale, pensando soprattutto a come sarebbero potute andare le cose… Scritto a metà degli anni ’50, corretto, completato e diffuso secondo le modalità del samizdat verso la fine degli anni ’60, Padiglione Cancro verrà stampato per varie case editrici e in diverse copie in occidente. In quest’opera, al posto di medici e specialisti impegnati nella difesa e promozione della salute per tutta la popolazione, quali erano gli araldi di Ippocrate in terra sovietica, dominano figure sinistre in camice bianco, quali il burocrate Rusanov, sprezzante e cinico, nonché l’incompetente ed evanescente Nizamutdin Bahramovič. È tutto un vortice di corruzione, incuria, freddezza e arroganza a pervadere ed agitare le pagine di questo romanzo e viene da chiedersi come, in un ambiente del genere, possa esserci stata tanta cura e sollecitudine per la salute e la vita stessa di un uomo che aveva giurato guerra al governo sovietico e aveva complottato per il suo rovesciamento. Solženicyn, questi scrupoli, queste domande, non se li pone nemmeno; va avanti nella sua opera demolitrice non solo del comunismo, ma soprattutto, in primo luogo, della verità storica e autobiografica, come un panzer, fidando, agli inizi degli anni ’60, sull’estrema liberalità del potere sovietico, che in qualche caso diventa connivenza.
I circoli chruščeviani e cosmopoliti, infatti, lo osannano e non stanno nella pelle per aver trovato un calunniatore del periodo staliniano tanto accanito e forbito nel linguaggio, nel registro stilistico. Prima di Padiglione cancro e delle altre opere pubblicate clandestinamente in URSS alla fine degli anni ’60 – inizio degli anni ’70, edite poi con gran clamore in occidente e nei paesi capitalistici, Solženicyn, per più di un lustro, domina il panorama letterario sovietico. Dal 1960 al 1966 circa, e con particolare intensità dal 1962 al 1965, il suo nome riecheggia ovunque e le sue opere trovano il favore di una miriade di riviste, in primo luogo Novij Mir guidata dal fervente chruščeviano Tvardovskij, convinto curiosamente che lo sviluppo del socialismo e l’arricchimento culturale del paese debbano per forza di cose passare per la demolizione dell’era di Stalin. Come se negli anni ’30 non si fosse conosciuta la più mirabolante, effervescente e fantasmagorica esplosione culturale, con operai, impiegati e tecnici, fino a qualche anno prima semianalfabeti o analfabeti totali, a compulsare tomi di scienze matematiche, ad apprezzare i poemi del realismo socialista e della letteratura classica, ad affollare sale da concerto, teatri e cinema, ad intavolare discussioni su argomenti letterari e culturali patrimonio da sempre, nei paesi borghesi, solo di ristrettissimi circoli. Il tutto, mentre si sviluppa la lotta per gli approvvigionamenti alimentari e tutto il paese conosce sacrifici che prepareranno poi il terreno al benessere pieno degli anni 1935-1940. Tant’è! Nel clima trasudante “liberalismo” chruščeviano nel 1962–65, Solženicyn fa il bello e il cattivo tempo e pretende di oscurare, con la sua ombra, tutta la luce che pervicacemente continua ad irrorare il paese in ogni suo angolo, malgrado la nuova dirigenza del PCUS si muova su un terreno pericoloso di cedimenti e carenze. Riabilitato pienamente nel 1956-57, mette mano alla penna con ossessivo impegno, rivede appunti, completa riflessioni, perfeziona lo stile (peraltro lo si deve riconoscere, brillante ed avvincente, quantunque posto al servizio di una causa errata) e pubblica, sotto la protezione di Tvardovskij e altri, tutta una sequela di opere di vario tenore che riscuotono elevato consenso di pubblico. L’URSS è un paese di ferventi lettori, al primo posto nel mondo per libri venduti e letti, e per le questioni storico–culturali si dibatte vivamente nel paese con la stessa passione e la stessa foga con cui, alle nostre latitudini, ci si accalora per il calcio e per lo sport in generale. Nel 1962 è la volta di Una giornata di Ivan Denisovič, romanzo sulla vita di un recluso tipo (secondo Solženicyn) nel Gulag sovietico. Comincia da qui, da quest’opera, il tentativo di dipingere i campi di lavoro correttivo e le prigioni dell’URSS come i lager nazisti, senza alcun rispetto per la verità storica e documentale. Questo tentativo raggiungerà l’apoteosi nella monumentale opera di mistificazione e falsificazione che sarà Arcipelago Gulag. I circoli anticomunisti mondiali iniziano a vedere Solženicyn come un paladino e lui non fa nulla, del resto, per allontanare sospetti e critiche.
Il 1964 segna l’ascesa di Leonid Brežnev a Segretario del PCUS. Il nuovo corso intende rettificare errori, mancanze e deficienze del gruppo dirigente chruščeviano e, in primo luogo, di Chruščev in persona, vista la forte impronta “zarista” da lui stampata su scelte e avvenimenti a partire dal 1956. La musica, col nuovo indirizzo di Brežnev, Kosygin e Podgornyj, cambia anche in ambito culturale e non per un ordine dall’alto, categoria questa che si ritrova solo nelle pieghe della più volgare sovietologia. Da anni, infatti, sono in molti, nel mondo dell’intelligencija, e specialmente in ambito letterario, a chiedere una correzione di rotta che mitighi lo strapotere degli scrittori “liberali” e dei fautori del “disgelo” a favore di una maggiore obiettività e pluralità della produzione letteraria, giornalistica, artistica in generale. E sì, perché a dominare la scena, dal 1956, non sono stati certo gli scrittori e i poeti tacciabili di “slavofilia” e di “nazionalbolscevismo”, ma esattamente quelli che hanno gridato ai quattro venti il finto dramma della loro inesistente emarginazione, proprio mentre occupavano la quasi totalità degli spazi disponibili relegando gli altri, i presunti censori, agli angolini e strapuntini della semplice tolleranza. Literaturnaja Gazeta, organo prestigioso, obiettivo, punto di riferimento imprescindibile per l’opinione pubblica sovietica, ha dovuto subire processi e sperticarsi in funamboliche giustificazioni per aver pubblicato, accanto a lettere di cittadini e pareri di critici favorevoli a Solženicyn, pure opinioni differenti, di critica e anche soltanto di riserva. Questa intolleranza inquisitoria, ancora più odiosa in quanto agghindata negli abiti del vittimismo, suscita un moto di indignazione che, certamente, non è secondario nel mutamento di indirizzo della politica culturale dello Stato, del Governo e del Partito. Pian piano, gli scrittori orgogliosi della storia sovietica, tutta, senza cesure artificiose, riconquistano, senza toglierlo ai “liberali” della new wave chruščeviana, lo spazio che meritano. La critica, la caleidoscopica diversità dei punti di vista, il dibattito intenso ed il pluralismo non svaniscono affatto. Svanisce, questa sì, la tolleranza verso le calunnie, le invenzioni, le falsificazioni volte a infangare la storia dei Soviet. Per questo, Solženicyn, che ha potuto pubblicare senza problemi Una giornata di Ivan Denisovič, La casa di Matriona, Il caso della Stazione di Krečetovka, comincia ad essere redarguito e smascherato nelle sue palesi esagerazioni e distorsioni della realtà. Nessuno lo censura: in tanti hanno stima di lui, dal punto di vista letterario. I suoi molteplici registri stilistici, originali ed avvincenti, piacciono anche a coloro i quali non apprezzano le sue idee: non abbiamo a che fare con un mediocre scrivano, come qualcuno ha preteso, facendo sconfinare la critica in ambiti non pertinenti, con somma ingenerosità. Dinanzi a noi c’è un valente scrittore, il quale viene attaccato, dopo anni di applausi a scena aperta per molteplici e documentate falsificazioni della verità storica. Falsificazioni che spesso confliggono con le leggi sovietiche che, mentre tutelano la libertà di espressione e di critica più piena e reale, non possono tollerare, come le leggi di tutto il mondo, calunnie e ingiurie gratuite. In verità, a muoversi non sono solo gli organi inquirenti e i garanti dell’ordine pubblico e della stabilità del sistema sovietico, ma in primo luogo gli intellettuali stessi.
Inizia nel 1966 un confronto con l’Unione degli Scrittori, che Solženicyn farà di tutto per sabotare con l’obiettivo di far trionfare, alla fine, il logoro copione del suo eterno vittimismo. Nel maggio 1967, lo sforzo dell’organo supremo degli scrittori sovietici raggiunge l’acme: si cerca di coinvolgere Solženicyn, correggendo il tiro di alcuni suoi scritti, persuadendo il letterato a non prestare più il fianco alle centrali antisovietiche, con episodi fantasiosi inventati di sana pianta, cifre assurde, del tutto irrealistiche, su repressioni e carcerazioni, ignominiose affermazioni sul socialismo e le idee progressiste. Lo sforzo dell’Unione degli Scrittori dell’URSS è paziente, tenace, fino ai limiti del logoramento. Il 22 settembre 1967, una riunione presieduta dal grande Konstantin Fedin discute del caso “Solženicyn” con assoluta franchezza, com’è costume in URSS. Alcuni propongono l’espulsione dello scrittore, ma la maggioranza è contraria: certe questioni, è questo l’orientamento maggioritario, debbono essere dibattute e affrontate con delicatezza e tatto, nel rispetto delle idee di tutti. Un atteggiamento saggio e nobile che però non trova orecchie altrettanto nobili e leali pronte a recepirlo: da una parte, infatti, c’è chi crede che il pluralismo debba essere garantito nel quadro delle leggi esistenti e non come strumento e paravento dell’eversione capitalista, borghese ed imperialista, sempre attiva contro l’URSS e i paesi di democrazia popolare. Dall’altro, c’è l’ambizione sconfinata di Solženicyn, il suo ritenersi legibus solutus, la sua ferma adesione all’ideologia più reazionaria e antisovietica. Per due–tre anni va in scena un dialogo tra sordi, proprio mentre Solženicyn ultima Arcipelago Gulag e viene sempre più eretto a paladino dei circoli borghesi, reazionari, anticomunisti di tutto il mondo, per i quali la distensione, la collaborazione tra est ed ovest rappresentano pericoli e minacce da esorcizzare in ogni modo.
Nel 1969, si giunge ad una decisione risolutiva: dopo ripetuti rifiuti a partecipare a confronti e dibattiti, dopo l’appurato e palese rifiuto di rivedere certe posizioni incompatibili con la legge sovietica e con l’ordinamento socialista, Solženicyn viene espulso dall’Unione degli Scrittori dell’URSS. Una decisione obbligata, vista la dinamica dei fatti, che però Solženicyn, con ipocrisia disgustosa, utilizzerà come freccia per il suo arco vittimista. L’autore tanto caro alla reazione mondiale, diventato un caso vieppiù dopo l’espulsione dall’organo supremo dei letterati sovietici, viene insignito nel 1970 del Premio Nobel. Un’investitura non casuale: a patrocinarla, come svelerà in un’indagine molto approfondita della Literaturnaja Gazeta, sono, in primis, le centrali fasciste e nostalgiche dei fuoriusciti russi in occidente. La Guardia Bianca, insomma, da sempre protetta ed addestrata all’eversione nelle capitali dell’occidente borghese, fa da sponsor al Nobel di Solženicyn. In particolare, la rivista Časovoj, edita a Bruxelles, rivendica la primogenitura della proposta di candidatura dello scrittore sovietico “dissidente” al più ambito premio letterario mondiale. Chi è l’animatore di Časovoj? Un tale Orechov, già intimo dei generali bianchi Wrangel e Kutepov nella guerra civile scatenata dalla reazione dopo il fatidico 1917, monarchico intransigente, fautore persino della guerra diretta dell’occidente contro l’URSS. Tale losco figuro, infatti, assieme ad altri uomini di simil fatta, ex-guardie bianche o collaboratori dei nazisti, invita, dalle pagine di Časovoj a “colpire preventivamente l’URSS” e si rammarica per il fatto che, nel 1945, gli statunitensi non abbiano sganciato la bomba atomica sull’URSS. Questi sono i supporter di Solženicyn, del “perseguitato” e “reietto” esponente della letteratura sovietica. Accanto a Orechov, si profila pure l’ombra di una donna, anch’ella legata a doppio filo alla reazione antisovietica: una certa Teresa Basquin. La madama compie viaggi in URSS e si dà al commercio di icone, stabilendo contatti con circoli anticomunisti ed eversivi e lucrando, così ci dice Literaturnaja Gazeta mai smentita in modo convincente da alcuno, sul traffico delle icone. A nome dell’Associazione “Art et Progress”, la donna invia missive in ogni angolo del globo per caldeggiare l’assegnazione del Premio Nobel a Solženicyn. In questo panorama fetido sono sempre più frequenti le uscite di scritti e articoli sullo scrittore nel mondo occidentale: la grancassa della propaganda antisovietica risuona, rombante e cupa, accompagnata da toni da crociata. Nel 1973/74 i vari Goffredo di Buglione della Guerra Fredda, armati di missili e bomba atomica, trovano l’accompagnamento più galvanizzante verso la loro immaginaria marcia in direzione del Santo Sepolcro moscovita: in vari paesi esce il “capolavoro” di Solženicyn, al quale abbiamo già precedentemente accennato: Arcipelago Gulag. In quest’opera, la calunnia antisovietica, la riabilitazione di elementi fascisti e reazionari, la più spericolata acrobazia statistica su morti e repressi nel periodo di Stalin, raggiungono l’apoteosi. Come in Agosto 1914, altra opera pubblicata all’inizio degli anni ’70, s’infanga non solo la storia sovietica, ma anche quella russa, dipingendo un paese quasi maledetto, popolato di inetti, sadici e incapaci, nella società come nell’Esercito. Nessuno si salva, o quasi! I sovietici, i comunisti, i militari eroici dell’Armata Rossa sono sempre colpevoli di qualcosa, crudeli, cinici, mentre i tedeschi sono, a parte qualche inciso, benevoli e tutt’al più colpevoli di non aver appoggiato a fondo la reazione anticomunista durante la Grande Guerra Patriottica, di non aver dato supporto alle bande di Vlasov e di altri.
I nazisti non hanno invaso un intero paese e pianificato la sua colonizzazione genocida: no, sono stati degli sprovveduti che non hanno avuto la lungimiranza di consegnare il potere ai quisling locali. Il fatto che il popolo sovietico abbia resistito eroicamente e vinto, contro le armate hitleriane, contro un Nuovo Ordine che avrebbe trasformato l’intera Europa in un lager, per Solženicyn è fantasia! Andrej Andreevič Vlasov, già generale dell’Armata Rossa, animatore di un esercito di mercenari al servizio dei nazisti, l’Armata Russa di Liberazione, viene dipinto come un innocente vittima dello stalinismo: un soldato, questo si pretende di accreditare, abbandonato coi suoi uomini da Stalin nel tentativo di rompere l’assedio di Leningrado. Nulla di più falso: Vlasov e i vlasoviani erano un pugno di traditori e imboscati, al servizio dei nazisti prima e, dopo la seconda guerra mondiale, trasferitisi nei comodi salotti occidentali agli ordini della reazione anticomunista e imperialista. Accanto ai traditori, c’era tutta una teoria di giovani e giovanissimi che, per paura, si erano arruolati sotto la Croce di S. Andrea azzurra (emblema dell’Armata Russa di Liberazione) e alla prima occasione utile disertavano unendosi all’Armata Rossa o ai partigiani. Il racconto del “tradimento” e “abbandono” degli uomini di Vlasov da parte del potere sovietico è, ad un tempo, grottesco, assurdo e, condito con la storia fantasiosa della “ribellione” di Vlasov a Stalin fin dagli anni ’30, serve a Solženicyn per giustificare una collaborazione coi nazisti che egli approva e giudica storicamente inevitabile.
Come dimostreranno con dovizia di particolari veterani della Grande Guerra Patriottica quali lo scrittore Jurij Bondarev, il Tenente-Generale Žilin e altri ancora, Vlasov non fu affatto vittima di un tradimento e di strategie militari perdenti. Lui, non altri, aveva tradito assieme ai suoi sodali mettendo a repentaglio la vita di migliaia e migliaia di soldati. Ecco il racconto, chiarissimo, del Tenente-Generale Žilin sulle vicende della Seconda Armata d’Urto guidata da Vlasov nella primavera–estate del 1942, racconto che fa il paio con le memorie del Maresciallo Meretskov e con altri documentatissimi testi editati in epoca sovietica: “Non appena si chiarì che l’Armata non poteva continuare l’offensiva in direzione di Ljuban, Vlasov ricevette l’ordine di far uscire le truppe dall’accerchiamento attraverso un varco disponibile. Ma Vlasov temporeggiò, restò inoperoso, non provvide a proteggere i fianchi, non seppe organizzare una rapida e segreta ritirata delle truppe. Ciò permise alle truppe naziste di tagliare il corridoio e di completare l’anello dell’accerchiamento.
Il Comando Supremo inviò immediatamente nella zona delle operazioni il Maresciallo K. A. Meretskov, nominato comandante del fronte di Volchov, e il proprio rappresentante Vasilevskij, incaricandoli di sottrarre ad ogni costo all’accerchiamento la seconda armata d’assalto, sia pure con l’artiglieria pesante e i mezzi. Furono prese tutte le misure possibili per salvare gli accerchiati. Dal 10 al 19 giugno 1942 si ebbero ininterrottamente violenti combattimenti, cui parteciparono grandi forze di fanteria, l’artiglieria e i carri armati della 4.ta, 59.ma e 52.ma Armata. Si riuscì ad aprire uno stretto varco nella trappola tedesca ed a salvare buona parte della 2.da Armata d’assalto. Una parte dei soldati e dei comandanti, compreso il Maggiore-Generale Afanasev, che dirigeva le comunicazioni dell’armata, si unì alle formazioni partigiane. Neppure Vlasov fu lasciato in balia del caso. Per ordine del Comando Supremo i partigiani lo cercarono tenacemente. Gruppi speciali di paracadutisti, muniti di radio emittenti, furono lanciati nella zona in cui poteva trovarsi”. Di Vlasov però, in quella calda e tragica estate del ’42, nessuna traccia! E certo! Il “prode” militare si era imboscato, aspettando i soldati tedeschi nel villaggio di Pjatnitsa. Quando arrivarono, passò dalla loro parte costituendo la sua armata per metà mercenaria e per metà di disgraziati impauriti e minacciati. Solženicyn esalta tale personaggio come candido e puro, quasi fosse un giglio! Non solo: ripete la storia dei battaglioni punitivi, delle compagnie di correzione che, da sole, avrebbero salvato Stalingrado. Un’intollerabile offesa, questa, a tutti gli eroi, spesso giovanissimi, che fecero di quella città la tomba del nazifascismo, ma anche un falso storico spudorato. Equipaggiate unicamente con artiglieria leggera, esigue nel numero, quelle compagnie mai avrebbero potuto frenare l’assalto della possente macchina bellica nazista, la quale, infatti, fu arrestata da armate, divisioni e reggimenti.
Come funzionassero poi le famose “compagnie di correzione” ce lo dice apertamente un loro ex-componente, il cittadino Abram Rabinovič, il quale, negli anni ’70, scrive una lettera di vibrante protesta contro le bugie di Solženicyn: “Chi incontrai nella compagnia di correzione? Si trattava soprattutto di uomini che, come me, non avevano eseguito quanto era stato loro comandato. La durata del servizio nelle compagnie di questo genere era molto breve. La prima vittoria nei combattimenti contro i tedeschi restituiva l’onore militare e comportava il ritorno al precedente posto di servizio”.
Le menzogne più colossali, però, in Arcipelago Gulag, sono dedicate ovviamente al sistema penale e detentivo. Solženicyn gioca coi numeri, come farà poi, con perizia o mal destrezza, a seconda dei casi, tutta una pletora di studiosi o pseudotali, votati all’antisovietismo più viscerale, primo tra tutti Robert Conquest. I documenti autentici desecretati oggi ci raccontano uno scenario del tutto diverso da quello prospettatoci da Solženicyn e dai suoi sodali: non certo 7, 9, 10 milioni di reclusi, ma al massimo, negli anni di picco, 2 o poco più di sottoposti a misure restrittive della libertà. Nei campi, negli anni clou delle “purghe” (1936–1939), dipinti come oscuri e tremendi dalla propaganda antisovietica, c’erano non 7 milioni di reclusi, cifra data per certa nei brogliacci e nei libri dei professori della CIA e affini, ma appena 839.406 nel 1936 e 1.317.195 nel 1939. Interessante è però, soprattutto, la cifra relativa ai detenuti politici: 127.000 nel 1934 e 500000 (cifra massima) negli anni di guerra 1941 e 1942. Altro che prevalenza dei “politici” su delinquenti, soggetti deviati e pericolosi, ladri ecc. Questo, nell’“inferno” sovietico che oltretutto riabilitava col lavoro e retribuiva i detenuti, aprendogli le porte del riscatto! Nel “paradiso” a stelle e strisce tanto amato da Solženicyn e dai suoi amici, invece, ancora oggi non si scende annualmente sotto la cifra di oltre 2.000.000 di carcerati e di circa 7.000.000 di sottoposti a misure restrittive. Tutte persone, queste, non certo partecipi di grandi imprese, come la costruzione di vie d’acqua e di opere pubbliche, ma sfruttate oscenamente e relegate ai margini. Anche il pianto sui quasi 60 milioni di repressi nell’era di Stalin si rivela, ad una rapida occhiata ed una elementare verifica, una truffa: negli anni ’30, nonostante i sabotaggi e le difficoltà scatenate dai kulaki, la popolazione cresce a ritmi superiori rispetto a quelli del mondo capitalista e i documenti attesteranno, al massimo, poco più di 600000 condanne a morte, perlopiù comminate nel 1937/38, nelle “purghe” spesso comandate da nemici del potere sovietico, infiltrati nei suoi gangli e sottoposte a revisione dallo stesso Governo e dal Partito. Nel 1926, l’URSS conta 147 milioni di abitanti; nel 1939, sono più di 170 milioni. Chi e cosa sia stato “sterminato” non è dato saperlo. Nel 1959, nonostante i 20 milioni di morti della Grande Guerra Patriottica, il paese arriverà a contare oltre 200 milioni di abitanti. Questa la cruda realtà, che ha la testa dura e che né Solženicyn né nessun altro potrà mai scalfire.
L’intrepido letterato messosi al servizio dell’imperialismo, però, non si accontenta di questo: falsifica passi interi delle opere di Lenin, come quando pretende di sostenere che il padre della Rivoluzione d’Ottobre abbia detto: “Il terrore è un mezzo di persuasione” indicando come fonte il Vol. XXXIX delle Opere, pagine 404–405. Una semplice ricerca, ci mostra come Lenin abbia detto tutt’altro, parlando del terrorismo collaudato e imposto dalle armate bianche durante la guerra civile: “Se tentassimo d’influire su queste truppe, costituite dal banditismo internazionale e inferocite dalla guerra, con le parole, con la persuasione, con mezzi diversi dal terrore, non reggeremmo nemmeno per due mesi: saremmo degli stupidi”.
Un ragionamento chiaro, contingente, lapalissiano, spacciato per programma politico permanente da Solženicyn. Una malafede più evidente è difficilmente immaginabile. Intanto, lo scrittore, incassati i proventi del Premio Nobel, che si aggiungono a pingui averi personali, continua a recitare ipocritamente la parte del povero e del perseguitato: Natalja Rešetovskaja, l’ex-moglie, nelle sue memorie e nei suoi interventi sarà su questo impietosa, per amore di verità e per dignità femminile, descrivendo un uomo egoista e narcisista. Per inciso, va detto che ogni tentativo di spacciare per patacche del KGB le affermazioni della Rešetovskaja è caduto miseramente nel vuoto, rivelandosi la solita manovra intossicante della premiata ditta Andrew-Gordievskij, operante sotto l’ala dei servizi segreti inglesi, gli stessi che hanno confezionato, alla fine del 1990 la bufala del Dossier Mitrokhin e concepito, negli anni 2000, altre operazioni di disinformazione contro Putin. Questi due autori (uno dei quali un traditore della sua Patria, ex-agente del KGB), hanno parlato di una non meglio dimostrata misura attiva, concepita dal capo del KGB Andropov, a partire dal settembre del 1974, per danneggiare Solženicyn, senza tener conto tra le altre cose del fatto che la Rešetovskaja ben prima di quella data aveva rivelato al mondo certi particolari ancora oggi non smentiti da alcuno (del 1973 è un suo articolo, pubblicato addirittura dal New York Times).
Ad ogni modo, al principio degli anni ’70, Solženicyn è proprietario o comunque fruitore di tre automobili Moskvich, variamente intestate, della dacia personale denominata “Borzovka”, una lussuosa villa immersa nel verde, di un appartamento di tre camere a Rjazan in cui abita la Rešetovskaja, nonché di un altro alloggio ancora più confortevole, di cinque camere, a Mosca, in cui vive la seconda moglie, Natalija Svetlova. Oltre a ciò, i risparmi personali messi “sotto il materasso“, i 78000 dollari del Premio Nobel, nonché, secondo i calcoli della stampa occidentale, 1500000 dollari giacenti in un conto svizzero amministrato dal solerte avvocato Heeb, al numero 57C della Bahnhofstrasse di Zurigo. Altro che povertà! Qui c’è un autentico nababbo… Un nababbo che, in odio al governo sovietico, non esita a intensificare, sotto al naso delle autorità sovietiche, per pura provocazione, i contatti con i circoli più retrivi e guerrafondai, forieri di concezioni nazistoidi e belliciste pericolosissime. Concezioni che Solženicyn non solo non cerca di mitigare, ma anzi fa di tutto per inasprire proprio per procurarsi quegli strali e quelle misure tanto utili, a lui, per giocare al perseguitato. Dinanzi a ciò, nel febbraio 1974, il Presidium del Soviet Supremo dell’URSS, con un atto reso immediatamente pubblico, decide di togliere la cittadinanza sovietica ad Aleksandr Isaevič Solženicyn. Lo scrittore ha raggiunto il suo scopo! Da quel momento viaggia in tutte le contrade del mondo capitalista, spargendo ai quattro venti il suo verbo, non ammantato nemmeno dalla più esile autocensura. Negli USA, nel 1975, al Congresso degli Stati Uniti e ai vertici del Sindacato invita apertamente a boicottare la distensione, a rifiutare ogni collaborazione con l’URSS: “per favore, ingeritevi più spesso nelle nostre questioni interne”, dice Solženicyn ai parlamentari statunitensi, molti dei quali colgono la palla al balzo… Nel 1976, in Spagna, manifesta inquietudine per la fine del franchismo e auspica il prosieguo della dittatura, mentre dispensa ammirazione per Pinochet e appoggia attivamente la guerra imperialista nel Vietnam. Altro che campione di libertà! Altro che paladino del “mondo libero”! Solženicyn si rivela pienamente quello che il potere sovietico, a parte la parentesi chruščeviana, aveva riconosciuto essere: un irriducibile nemico del comunismo, della pace tra i popoli, della vera libertà e dell’emancipazione degli sfruttati. Dopo il 1991, i suoi strali li dirige contro il capitalismo selvaggio e il liberismo devastatori della Russia, ma niente e nessuno muta la sua visione del mondo reazionaria, “feudale” ed anticomunista. Lo scrittore muore a Mosca il 3 agosto del 2008: se ne va in quella data un’icona della Guerra Fredda, idolatrata ed elevata a mito, per le supreme esigenze della borghesia imperialista».
14. L. Baldelli, Solženicyn ai raggi X. Anatomia di un mito anticomunista, Noicomunisti.blogspot.com, 1 settembre 2016.