4.06. 2011: LA DEVASTAZIONE DELLA LIBIA
Per raccontare le bugie messe in atto nel caso libico ci appoggiamo ad un articolo di Vladimiro Giacché31, che nel 2012 ha pubblicato La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, un libro dedicato al tema qui trattato. Leggiamo cosa ci ricorda Giacché su come sia stata legittimata la campagna interventista:
«La verità viene mutilata quando nel trattare di un evento non si fa menzione del contesto in cui si colloca, delle circostanze, di ciò che gli sta attorno. O, semplicemente, la si racconta a metà […]. Nel caso libico esiste un episodio […] si tratta della famosa foto che il 22 febbraio i media di tutto il mondo hanno rilanciato con grande evidenza sotto il nome di “fosse comuni in Libia”. Quello che la foto riprende è in realtà un normale cimitero in cui si stanno preparando alcune tombe singole, ma gli scatti che hanno fatto il giro del mondo non consentono di capirlo.
Ma c’è di più: come ha rivelato il giornalista Rai Amedeo Ricucci, le stesse foto erano già state messe in rete mesi fa. Lo stesso Ricucci a questo proposito ha raccontato un episodio interessante. Il caporedattore di un’importante agenzia di stampa italiana, accortosi della bufala, ha fatto presente al suo direttore che si trattava di foto vecchie. La risposta del direttore è stata: “[questa notizia] gli altri la danno, non possiamo bucare”. Questo meccanismo è tutt’altro che nuovo. Il 26 e 30 maggio 2004, il New York Times fece autocritica sull’atteggiamento tenuto nei confronti della guerra in Iraq, ammettendo – in un editoriale firmato dalla direzione del quotidiano e poi in un articolo del garante dei lettori – che alcuni articoli “non erano stati rigorosi a sufficienza”, e si erano giovati di fonti “discutibili”. Di più: il quotidiano ammise che la copertura offerta era stata un fallimento “non individuale ma istituzionale”: un “fallimento” fatto anche di titoli strillati in prima con notizie false. In quel contesto il New York Times fece riferimento anche all’“ansia di scoop”, quale movente che avrebbe indotto a pubblicare notizie senza verificarne in misura adeguata l’attendibilità. Anche Franck de Veck (ex direttore del settimanale tedesco Die Zeit) ha attribuito una parte della colpa delle notizie false pubblicate nel caso iracheno alla necessità per i giornali di decidere rapidamente cosa mettere in pagina: “meglio un’opinione, anche non suffragata da prove, che nessuna”. Lo stesso è avvenuto nei primi giorni dei disordini in Libia. Se tutti i giornali aprono sui 10.000 morti in Libia, notizia lanciata dalla televisione saudita Al-Arabiya il 24 febbraio e assolutamente inverificabile, io – giornalista della redazione x – che faccio? “Prendo un buco” o la metto anch’io? Da un punto di vista di etica dell’informazione, la scelta dovrebbe essere ovvia: non la metto. In pratica succede quasi sempre il contrario: perché il fatto che tutti mettano una notizia non verificata mi copre se risulterà non vera. E in effetti, la notizia in questione si è rivelata falsa, come false erano le generalità dei presunti funzionari della Corte Penale Internazionale che ne sarebbero stati la fonte. Ma ha contribuito a creare il clima psicologico per predisporre l’opinione pubblica occidentale alla decisione di effettuare un intervento militare in Libia. Lo stesso vale per l’episodio raccontato da Ricucci, con l’aggravante – in quel caso – che la verifica era stata fatta e aveva dato esito negativo. Il mosaico delle verità dimezzate (le presunte atrocità commesse dai soldati di Gheddafi, mentre ovviamente i soldati lealisti ammazzati o umiliati dai rivoltosi della Cirenaica non vengono mostrati, o – quando lo sono – vengono etichettati come “mercenari”) e delle pure e semplici falsità finisce per comporre una più generale verità messa in scena. Una rivolta tribale è trasformata in rivoluzione democratica, gli scontri armati tra ribelli e truppe regolari sono trasformati in “genocidio” ad opera di queste ultime (memorabili alcuni titoli in prima del Fatto Quotidiano), e un personaggio come Gheddafi si trasforma, da un giorno all’altro, da affidabile partner d’affari a una via di mezzo tra Adolf Hitler e Idi Amin Dada; ovviamente, in parallelo alla demonizzazione del dittatore, c’è l’idealizzazione degli insorti, che attinge vette di notevole lirismo. Lo prova tra gli altri un titolo di Repubblica del 23 marzo: “Al fronte in sella a una Kawasaki i sorridenti guerrieri della rivoluzione”; con tanto di sottotitolo rock: “Un inno ispirato a Jim Morrison per l’esercito della nuova Libia”. Il messaggio sottinteso di questa ridicola propaganda di guerra: loro sono come noi, Gheddafi e i suoi sono dei barbari o – come pure è stato detto – “beduini”».
31. V. Giacchè, La fabbrica del falso e la guerra in Libia, Lernesto.it-CCDP, 14 maggio 2015.