3.6. IL CONFLITTO CON L'URSS
Tito a Stalin: «Smettila di mandare persone ad uccidermi. Ne abbiamo già catturati cinque, di cui uno con una bomba e uno con un fucile. Se non la smetti di mandarmi sicari, ne manderò io uno a Mosca, e non avrò bisogno di mandarne un secondo». (messaggio trovato fra gli effetti personali di Stalin; citato in Robert Service, Stalin: A Biography)31Marco Costa32 ci aiuta a ricostruire le cause e le problematiche che portano al conflitto tra Jugoslavia e URSS (con annesso il Cominform):
«Tali cause si possono far risalire al 1937 durante l’esilio a Mosca dei comunisti jugoslavi, nel periodo delle cosiddette “purghe” staliniane. Da alcuni discorsi di Tito traspare una forte volontà autonomistica già radicata nel gruppo dirigente del PCJ negli anni precedenti la guerra di liberazione popolare […]. Tuttavia i primi veri dissensi nacquero durante la guerra di liberazione, si accentuarono durante l’entrata dell’Armata Rossa in territorio jugoslavo e, immediatamente dopo la guerra, in occasione dell’organizzazione della polizia segreta. Vennero poi le polemiche sulla federazione con la Bulgaria (possibile centro socialista balcanico alternativo a Mosca), sull’autenticità della rivoluzione jugoslava e sul modello di costruzione del socialismo. Nel giugno del 1949 il Komunist, organo del Partito comunista jugoslavo per la teoria e la prassi marxista, pubblicò un articolo di Milentije Popovic, uno dei principali esponenti della direzione ideologica del paese, intitolato Dei rapporti economici tra i paesi socialisti, che forse ci permette di scoprire la ragione decisiva della rottura tra la Jugoslavia e i paesi cominformisti. L’articolo denuncia lo sfruttamento economico compiuto dall’Unione Sovietica e dagli altri paesi dell’Europa orientale a spese della Jugoslavia attraverso il commercio internazionale. Già nel novembre del 1948, in un discorso tenuto a Lubiana, Tito aveva affermato che “i rapporti economici tra i paesi socialisti ancora oggi si fondano sui principi dello scambio capitalistico di merci”, e su questa premessa Popovic basò la sua analisi, sostenendo che esisterebbe un tasso di profitto medio mondiale che, nello scambio internazionale, regola la distribuzione del profitto favorendo i paesi più sviluppati, i quali posseggono una composizione organica del capitale superiore alla media mondiale.
Nei paesi arretrati il livello della produttività e dell’intensità del lavoro è inferiore a quello medio mondiale; e inoltre, poiché privi di una industria competitiva, essi sono costretti a entrare nel mercato internazionale mediante prodotti agricoli e dell’industria estrattiva, cioè con merci prodotte dai settori generalmente meno produttivi, peggiorando così ulteriormente le loro condizioni di scambio. La Jugoslavia che, secondo i dati forniti da Popovic, era il paese meno sviluppato del blocco comunista in quasi tutti i settori produttivi, si rifiutò di accettare la struttura degli scambi, i prezzi e le società miste che le venivano imposti, appellandosi a principi di solidarietà e di aiuto del mondo socialista. […] Uno dei punti più controversi della polemica ufficiale tra il PCUS e il PCJ era il problema contadino. Nelle famose lettere scambiate dai comitati centrali dei due partiti nel 1948, i comunisti jugoslavi erano definiti un partito di kulakí e Kidriš si difese contro questa accusa dicendo:
“Il corso della nostra rivoluzione non soltanto permetteva, ma esigeva – e seppe realizzare – un’alleanza continua con il contadino medio, nonostante le sue varie esitazioni, mentre nella rivoluzione russa, durante la lotta contro il potere borghese, chi esitava e si opponeva maggiormente era proprio il contadino medio e perciò a quel tempo si rese necessaria una politica di alleanza col contadino povero e di neutralizzazione del contadino medio”.Per capire bene la condanna del Cominform risulta indispensabile la lettura dell'opera di Vincenzo De Robertis, 1948 - Il Cominform, l'URSS e la Jugoslavia33, disponibile gratuitamente sul web. Alla Risoluzione di condanna del Cominform del 1948 si arriva dopo un carteggio di diverse lettere, intercorso nei tre mesi dal 18 marzo al 17 maggio del 1948, fra la Direzione del P.C.(b) dell'URSS e quella del Partito Comunista di Jugoslavia.
La tensione con l’Unione Sovietica crebbe rapidamente, e il congresso del 1952 fu il congresso della rottura definitiva. Gli oratori del gruppo dirigente jugoslavo scesero in campo con parole di fuoco contro Stalin. […] Dalla polemica con l’Unione Sovietica si passò alla critica della società sovietica e quindi alla critica del modello che la stessa Jugoslavia aveva adottato: un paese che conduceva una tale politica estera doveva contenere all’interno del proprio sistema le cause di tale comportamento considerato come neo-imperialista. Questo fu il momento “eroico” del socialismo jugoslavo, che cercava di rompere gli schemi in cui si era fossilizzata la società socialista. Alla luce di una reinterpretazione del marxismo, gli jugoslavi compirono un’analisi del sistema sovietico che definirono una forma di capitalismo di stato, denunciarono la forma statale di proprietà dei mezzi di produzione, l’espropriazione compiuta dalla classe burocratica a spese della classe operaia, il pesante dirigismo dello stato».
«Su che cosa si basa la condanna? Sintetizzando al massimo le contestazioni, sono sollevate questioni attinenti:Aldo Calcidese34 riporta il punto di vista del Cominform sulla questione in questo articolo:
- il rapporto della Jugoslavia con l'URSS;
- la costruzione del socialismo in Jugoslavia;
- il Partito Comunista Jugoslavo e la sua vita interna».
«La lotta ideologica dei comunisti albanesi contro il revisionismo inizia già nel dopoguerra, in un durissimo confronto con la cricca revisionista di Tito. Winston Churchill, nelle sue Memorie, racconta come si fosse interessato direttamente per mettere Tito e il suo gruppo al servizio delle potenze imperialiste. Nel maggio 1944, egli si incontrò personalmente a Napoli con Tito. Nelle sue Memorie Churchill scrive che Tito si mostrò disposto ad affermare anche pubblicamente che “il comunismo non sarebbe stato instaurato in Jugoslavia”. Durante la guerra si ebbe un'adesione al Partito Comunista Jugoslavo di 140.000 membri e di altri 360.000 prima della metà del 1948. Erano entrati nel partito decine di migliaia di kulaki e di borghesi. Il partito non aveva una vita interna normale, non c'erano discussioni politiche al suo interno, i dirigenti non erano eletti ma cooptati. Nel giugno 1948, l'Ufficio di Informazione dei partiti comunisti (Cominform) che comprendeva otto partiti comunisti pubblicò una risoluzione che criticava il Partito jugoslavo. La risoluzione affermava che, partendo da una posizione nazionalista borghese, il Partito jugoslavo aveva spezzato il fronte unito socialista contro l'imperialismo. “Una tale linea nazionalista non può che condurre alla degenerazione della Jugoslavia in una qualsiasi repubblica borghese”.
“Tito scatenò un'epurazione di massa. Tutti gli elementi marxisti-leninisti furono eliminati dal Partito. Due membri del Comitato Centrale, Zujovic e Hebrang, erano già stati arrestati nell'aprile del 1948. Il generale Arso Jovanic, capo di stato maggiore dell'Armata dei partigiani, fu arrestato e assassinato, come il generale Slavo Rodic”. […]
The Times riferiva di numerosi arresti di comunisti che sostenevano la risoluzione del Cominform e riteneva che il numero delle persone imprigionate fosse tra le 100.000 e le 200.000.
Prima ancora che si completasse il distacco dall'Unione Sovietica e dai paesi a democrazia popolare, già cominciarono ad arrivare in Jugoslavia ingenti aiuti economici e militari da parte delle potenze imperialiste, soprattutto dagli USA. Il governo degli Stati Uniti investì dal 1948 fino agli anni '70 nel “socialismo jugoslavo” circa 7 miliardi di dollari. Nella sua opera Imperialismo e rivoluzione, il segretario del Partito del Lavoro d'Albania, Enver Hoxha, afferma:
“Questi aiuti vennero concessi a condizione che il paese si sviluppasse seguendo una via capitalistica. La borghesia imperialista non era contraria al fatto che la Jugoslavia mantenesse in apparenza forme socialiste, anzi era molto interessata a che essa conservasse una vernice socialista, poiché così sarebbe divenuta un'arma ancora più efficace nella lotta contro il socialismo e i movimenti di liberazione”. […]
Enver Hoxha ricorda come già nel 1945 i titisti entrarono nelle zone che erano state liberate dai combattenti albanesi e kosovari per eliminare i consigli di liberazione nazionale e per scatenarvi un terrore massiccio contro gli albanesi. “Questa inaudita rappresaglia dei titisti provocò giustamente una grande rivolta popolare e mise in forse anche la 'nuova Jugoslavia', poiché con ragione il popolo kosovaro non vedeva alcuna differenza con quello che aveva sofferto sotto la 'vecchia Jugoslavia'… Il terrore contro gli albanesi andava via via crescendo. Questi venivano incarcerati, uccisi in massa, sottoposti a torture e andavano a riempire gli orribili campi di concentramento di Rankovic”.
[…] Tito aveva inoltre dei piani annessionistici nei confronti dell'Albania, che doveva diventare – secondo i suoi progetti – la settima repubblica jugoslava. A questo scopo era riuscito ad infiltrare dei suoi agenti nell'Ufficio Politico del Partito Comunista Albanese (che prenderà successivamente il nome di Partito del Lavoro d'Albania). Questi agenti presentarono la proposta di realizzare “un'unione economica e militare con la Jugoslavia”, naturalmente sotto la direzione di Tito. Dopo che il complotto dei titisti fu sventato in Albania, si svolse a Bucarest una riunione nella quale Enver Hoxha, alla presenza anche del rappresentante del Partito Comunista Rumeno, Dej, incontrò il rappresentante del Partito Bolscevico, Andrei Vysinskij.
“Sottolineando il fatto che dietro i tentativi di creare una 'federazione balcanica' si nascondevano le mire scioviniste di Tito volte a dominare i Balcani, feci ai compagni un'esposizione della politica sciovinista e antimarxista seguita dalla direzione di Belgrado, sia durante che dopo la guerra, anche verso il Kosovo e le altre regioni albanesi in Jugoslavia. In questa riunione lasciai capire ai compagni che il nostro Partito, in questa lotta, era venuto a trovarsi molte volte solo e che andava quindi aiutato di più, molto più apertamente e con maggiore fiducia. Quando ebbi finito, si fece una pausa, poi Vysinskij trasse le conclusioni della riunione. Tra l'altro, disse: 'Certi di non sbagliare nella valutazione dell'attività di questi rinnegati, giungiamo alla conclusione che questa lotta politica e ideologica sarà lunga. Il Partito Bolscevico approva l'operato e la giusta e tenace lotta del Partito Comunista d'Albania, del suo Comitato Centrale e del compagno Enver Hoxha, in difesa del marxismo-leninismo. Noi dobbiamo essere consapevoli che questa cricca andrà oltre nella sua attività ostile contro il nostro campo socialista. I titisti ricorreranno a provocazioni per ingannare l'opinione pubblica in Jugoslavia e fuori, ed anche per giustificare la loro politica di tradimento e di legami con i paesi capitalisti'”.
[…] Così il titismo operò come fattore di rottura nel movimento comunista internazionale, con l'appoggio delle potenze imperialiste».
Riportiamo infine il commento e le argomentazioni, al solito molto schiette e dure riguardo a Tito, di Kurt Gossweiler35, che in queste pagine commenta il caso nel maggio 1955 dopo le prime istanze di riavvicinamento tra Tito e URSS volute da Chruščev:
«Arrivo della delegazione sovietica a Belgrado. Discorso di Chruščev all'aeroporto: “Caro compagno Tito! […] Ci rammarichiamo sinceramente di quanto è accaduto e con decisione spazziamo via i detriti accumulatisi in questo periodo. Tra i quali annoveriamo senza dubbio il ruolo provocatorio nei rapporti tra la Jugoslavia e l'URSS, svolto dagli oramai smascherati nemici del popolo Berija, Abakumov e altri. Abbiamo esaminato accuratamente i materiali, su cui poggiavano le pesanti accuse e offese rivolte al tempo contro i dirigenti della Jugoslavia. I fatti dimostrano che queste prove sono state fabbricate da nemici del popolo, ignobili agenti dell'imperialismo, che con l'inganno si erano insinuati tra le file del nostro Partito”.
Nulla di più preciso è stato mai pubblicato circa quali documenti fossero stati falsificati. Sebbene l'affermazione che il movimento comunista mondiale, con compagni così esperti del calibro di Stalin, Dimitrov, Togliatti, Thorez, ecc., fosse stato indotto, dalle falsificazioni di un gruppo di provocatori, a una valutazione totalmente distorta della situazione di un paese e che il movimento comunista, e il PCUS alla sua testa, avessero torto, mentre la ragione stesse dalla parte di Tito, sebbene un quadro di tal fatta abbia a tutti gli effetti dell'incredibile, molti hanno preso per vera questa sola affermazione basata sul nulla, che è bastata per vedere, da allora in poi, in Tito il “caro compagno”, vittima di un'amara ingiustizia. […] Per i meno creduloni, però, rimangono dei fatti che neppure questa dichiarazione ha potuto cancellare, fatti che impediscono di considerare Tito come un vero comunista, degno di fiducia:
1. La prima delibera dell'Ufficio informazioni nel giugno del 1948 era stata preceduta da uno scambio epistolare tra il PCUS e gli altri partiti comunisti da una parte e il Partito jugoslavo dall'altra, lettere in cui i primi avevano avanzato delle critiche nei confronti di alcuni provvedimenti ed esternazioni dei compagni jugoslavi, proponendo una seduta dell'Ufficio informazioni per discutere delle divergenze d'opinione. […] Tito respinse però tali colloqui […].
2. La prima delibera dell'Ufficio informazioni nel giugno del 1948 esprime una critica assai moderata, pur se di principio, al Partito comunista jugoslavo. Tale critica era fondata su una documentazione assolutamente univoca e ancora oggi comprovabile, e ha dimostrato che la dirigenza del Partito comunista jugoslavo, fra l'altro, si distaccava dall'internazionalismo proletario per deviare verso il nazionalismo; che “i capi della Jugoslavia avevano iniziato a equiparare la politica estera dell'URSS a quella delle potenze imperialiste, adottando un atteggiamento nei confronti dell'Unione Sovietica simile a quello rivolto verso gli Stati borghesi”: per prendere in considerazione solo l'accusa, della cui fondatezza Tito ha dato chiaramente la prova negli ultimi tempi […].
3. Parimenti, non è frutto di fantasia, ma un fatto, che in Jugoslavia i cosiddetti comunisti “fedeli al Cominform” vennero perseguitati, esclusi dal Partito, imprigionati e costretti a emigrare. […]
4. Fin da subito dopo la prima risoluzione la politica estera della Jugoslavia iniziò a orientarsi verso gli Stati imperialisti, anche a prova di ciò esistono documenti autentici.
5. I processi che furono condotti nelle democrazie popolari non erano provocazioni di Berija, ma si fondavano su fatti emersi in questi paesi. Le risultanze di tutti questi processi portarono allo stesso giudizio circa il ruolo di Tito. È vero pure che la maggior parte di essi venne in seguito ritenuta infondata. Ma ciò ha fatto emergere una situazione piuttosto singolare: il processo Kostov in Bulgaria viene invalidato a posteriori, stessa sorte tocca al processo Rajk in Ungheria, quello di Slanskij in Cecoslovacchia “solo nei limiti in cui si riferisce alla Jugoslavia”. Del processo contro Xoxe in Albania è stata espressamente confermata la legittimità. Per quanto riguarda i casi Rajk e Kostov, non risulta ancora oggi espresso in che cosa consistessero esattamente le presunte falsificazioni. Per quanto attiene al processo Slanskij, è del tutto evidente, per chiunque se ne sia occupato, che è impossibile dichiararne invalida una parte senza ritenere l'intero processo frutto di falsificazione. Se, d'altro canto, se ne recupera solo una parte, si esprime con ciò che tutte le sue parti fossero corrette. È pertanto lampante che la dichiarazione di parziale invalidità abbia potuto aver luogo solo perché, dopo la riabilitazione di Tito da parte del PCUS, anche le restanti democrazie popolari erano tenute ad adeguarsi (ci soffermeremo in seguito sul motivo). Il Partito albanese è stato il solo (!) a non compiere questo passo, perseverando nella sua posizione: Xoxe è stato condannato e giustiziato legittimamente, egli era dunque un agente di Tito, che voleva consegnare l'Albania nelle mani della Jugoslavia. D'accordo, ma o Tito è un “caro compagno”, e allora non esistono agenti di Tito, neppure in Albania, oppure esistevano agenti di Tito in Albania, ma allora Tito non è un “caro compagno”. Dunque non si comprende perché non dovessero esserci agenti di Tito anche in Bulgaria, in Ungheria, nella Cecoslovacchia e in Polonia.
6. Del resto, l'attività antisovietica di disgregazione da parte degli uomini di Tito si percepiva anche in Germania e soprattutto in quella occidentale, nel Kpd [Partito comunista di Germania, ndr].
7. Non è un'invenzione di Berija, infine, che in Jugoslavia il “socialismo” vada edificato con il ricorso ai prestiti americani e che da anni la Jugoslavia sia un membro dell'imperialistico patto dei Balcani e che lo sia rimasta anche dopo la riconciliazione con l'Unione Sovietica e le democrazie popolari. La Jugoslavia è restata dall'altro lato della barricata, il nostro era ed è quello del Patto di Varsavia.
In passato, era scontato per ogni comunista che chi si coalizza con gli imperialisti contro l'Unione Sovietica non può essere un comunista. Oggi, invece, può accadere che qualcuno ci attacchi alle spalle e ammetta apertamente di voler annientare tutti i Partiti comunisti, come ha fatto Tito nel discorso di Pola, e che tuttavia i comunisti continuino a considerarlo comunque un comunista! Ma allora, come si spiega la dichiarazione di Chruščev a Belgrado? L'unica spiegazione che potrebbe consentire di approvare questo passo, e di ritenerlo addirittura un'astuta mossa da scacchi, sarebbe stata quella di sfruttare le difficoltà interne ed esterne di Tito e il suo spacciarsi per comunista al fine di ricondurre la Jugoslavia, prendendolo in parola, nel campo socialista. E, con lo scopo di sottrargli sul nascere qualsiasi possibilità di sfuggire, perfino addossandoci noi la colpa della rottura. In questo modo, si sarebbe potuto sostenere, sarebbe stata anche concessa alle forze sane del Partito jugoslavo una base per poter di nuovo apparire sulla scena. Una tattica molto audace, fin troppo astuta. Che in un primo momento riscosse un successo tanto sorprendente da spiegare il motivo per cui i compagni bulgari e ungheresi si lasciarono convincere e si mostrarono disposti a non ostacolarne l'ulteriore affermazione, anzi a incoraggiarla con la delegittimazione dei processi. Ma poi, nell'ottobre del 1956, tutto si è svelato improvvisamente: con questa tattica non venne recuperata la libertà d'azione delle forze internazionaliste all'interno del Partito jugoslavo; nulla si è sentito in Jugoslavia a proposito di una riabilitazione degli “uomini del Cominform”. Tito non ne aveva del resto proprio bisogno, gli era infatti stato riaffermato che tutti coloro che lo avevano accusato avevano avuto torto. Al contrario, tutte le forze titoiste, già rese innocue, vennero rinvigorite e riattivate! Non si era per questa via ripristinata né consolidata l'unità del campo socialista, piuttosto si era spianata la strada al nemico, per la penetrazione nel nostro campo. Un altro effetto della dichiarazione di Chruščev: anch'essa fu un colpo inferto all'autorità di Stalin, che, come tutti sapevano, aveva svolto un ruolo decisivo nella condanna di Tito. Una preparazione per i colpi futuri».
31. Daily Mail Reporter, Did Yugoslav dictator Tito poison Stalin? Historian claims he killed rival after being the target of 22 Soviet assassination attempts, Daily Mail (web), 18 luglio 2012.
32. M. Costa, L’originalità economica del socialismo autogestionario jugoslavo, Cese-m.eu, 2 settembre 2015.33. V. De Robertis, 1948 - Il Cominform l'URSS e la Jugoslavia. I Partiti Comunisti nel secondo dopoguerra fra nazionalismo ed internazionalismo proletario, CCDP, 6 gennaio 2013 [1° edizione originale 2012].
34. A. Calcidese, Enver Hoxha e la grande battaglia ideologica dei comunisti albanesi contro il revisionismo, Leragionidelcomunismo.jimdo.com-CCDP, 2 aprile 2015.
35. K. Gossweiler, Contro il revisionismo, cit., pp. 210-215; estratto disponibile su Associazionestalin.it.