21 Novembre 2024

3.16. LA MISERIA DI OCCHETTO E L'ABBANDONO DEL MARXISMO

Su Papa Francesco: «è forse l’ultima persona di sinistra rimasta». (Achille Occhetto, aprile 2017)260
«A proposito del cosiddetto “partito nuovo” il discorso è invece più complesso. Il partito è solo uno strumento, è un mezzo e non certamente un fine in sé. […] Il “partito nuovo” di Togliatti è anch’esso un partito di gestione politica di alleanze di classe. E fin qui tutto bene. I problemi cominciano dalla sua matrice ideologica, che era lo storicismo, e cioè l’idea che il tempo lavorasse inesorabilmente per la vittoria finale del socialismo. In linguaggio epistemologico, diremmo che l’ipotesi scientifica di fondo che sorreggeva l’intera costruzione storico-politica era sbagliata. E quando c’è un nodo che non si può sciogliere, prima o poi questo nodo viene al pettine. Il pettine giunse fra il 1989 ed il 1991». (Costanzo Preve)261
Come abbia fatto un simile personaggio a diventare segretario del PCI rimarrà sempre un grande mistero, a meno che non si voglia ipotizzare l'idea che Berlinguer e gli altri dirigenti siano improvvisamente rincretiniti, oppure che Occhetto fosse uno dei molti infiltrati della CIA nel PCI, riuscito miracolosamente a fare carriera fino ai massimi vertici. La realtà è probabilmente molto più semplice: Occhetto è il simbolo di un Partito revisionista che, di generazione in generazione, ha scambiato la tattica con la strategia, perdendo progressivamente il contatto con la classe lavoratrice e con l'essenza stessa del marxismo, in una subalternità di classe ormai tale da rendere inevitabile il passaggio verso un'organizzazione non più comunista ma completamente “altra”. Leggiamo da un articolo di La Repubblica del febbraio 1989262 le posizioni ideologiche proclamate da Occhetto.
Nell'esporre l'articolo faremo alcuni commenti tra parentesi quadre:
«Dopo Alfredo Reichlin, è Achille Occhetto a scendere in campo in prima persona per spiegare quanto pesi la scelta della democrazia economica nel nuovo corso di Botteghe Oscure, e avvertire tutti - anche dentro il partito - che questa parola d' ordine sarà al centro del dibattito congressuale [“democrazia economica” diventa evidentemente una fraseologia di “sinistra” utile a non allarmare troppo la base, ndr]. A Firenze, il segretario del PCI ha evitato ieri ogni commento sull'esplicita presa di distanze di Alessandro Natta dal nuovo gruppo dirigente [un evidente segnale di dissenso, ndr]. A una platea attenta di imprenditori e di rappresentanti delle categorie [un segretario del PCI che va a parlare ad una platea di imprenditori è uno dei segnali più evidenti del tradimento di classe ormai consumato, ndr], il segretario comunista ha riproposto invece una linea che insiste nell'individuare nei lavoratori ma anche nelle imprese i beneficiari fondamentali della riforma del fisco proposta da Botteghe Oscure, ed esalta la concorrenza come fattore-chiave dell'innovazione e dello sviluppo del sistema [dalla centralizzazione produttiva alla “concorrenza”... ndr]. Il tutto, in una prosa segnata qui e là da accenni al marketing e al know how [esterofilia e americanizzazione della cultura sono parte integrante del nuovo segretario, fin dal linguaggio, ndr], e dalla convinta asserzione - sulla scia della polemica sulla Rivoluzione francese, e sul ripudio del giacobinismo [sulla scia degli storici reazionari si attacca il secondo più grande evento della storia occidentale dell'Umanità che pose fine al feudalesimo, ndr] - che occorra andare oltre il liberalismo e oltre il marxismo [chiarissimo, ndr] per stabilire tra loro un rapporto reciprocamente fecondante.
Occhetto ha ripetuto che oggi non è più possibile pensare al progresso come a una crescita lineare e indifferenziata, ma occorre far riferimento a essenziali fattori di carattere ambientale e sociale, a cominciare dalla disoccupazione. Per riuscire a governare in modo nuovo lo sviluppo, occorre però ripensare il ruolo e l'intervento dello Stato: che in Italia, significa soprattutto critica alla DC, che con il suo sistema di potere è la forza politica che con più determinazione si batte per la conservazione del vecchio statalismo [paradossalmente la DC più a sinistra del PCI nella fase occhettiana, ndr]. Uno statalismo, ha chiarito Occhetto, che è all'origine della commistione tra politica, finanza e sistema delle imprese che corrompe lo Stato e le imprese, penalizzando le più piccole a vantaggio delle grandi concentrazioni [portando alle estreme conseguenze il messaggio moralistico di Berlinguer, Occhetto lo applica meccanicamente all'ambito strutturale, facendo propria l'ideologia liberista dello “Stato corruttore” e del “capitalista virtuoso”, ndr]. Allo Stato dunque - ha proseguito il segretario comunista - spetta anzitutto il compito di fissare le regole, e insieme favorire il libero accesso al mercato [ecco l'esaltazione del libero mercato, ndr]. Ma anche di soddisfare l'esigenza di una più equa distribuzione della ricchezza, agendo sulla leva fiscale anche per alleggerire il carico fiscale sulle imprese: in questo senso, ha aggiunto Occhetto, l'accordo governo-sindacati è insufficiente, ma corregge comunque significativamente la manovra economica, e dunque verrà difeso dal PCI in Parlamento [“non va bene ma lo sosteniamo”, l'inizio dell'opposizione puramente parolaia che tenta di nascondere gli atti concreti, ndr]. L'altra richiesta crescente da soddisfare è quella di partecipare alle decisioni economiche, di garantire il diritto di tutti ad essere protagonisti anche delle scelte dell' impresa per cui si lavora. È il tema proprio della democrazia economica, centrato sull'affermazione che la democrazia non si ferma ai cancelli della fabbrica. In questo senso, ha ribadito Occhetto, la posizione del PCI sul caso Fiat non è stata di retroguardia e men che mai dettata da una concezione dell'impresa ostile e estranea alla crescita democratica. Il punto, ha detto il leader comunista, è che Botteghe Oscure difende una visione irriducibilmente pluralistica dell'azienda, un'istituzione il cui valore è certo la produttività, ma anche l'essere un aggregato di persone e conoscenze: e quindi comincia a lavorare anche sull'ipotesi di far partecipare direttamente i lavoratori alla ricchezza che proviene dal processo produttivo [praticamente il PCI diventa un sindacato dimenticando che la democrazia non significa compartecipazione più equa degli utili ma abolizione della proprietà privata del mezzo di produzione e democrazia decisionale, ndr]. La battaglia per uno Stato regolatore, che attrezzi il mercato a reggere le sfide dell'innovazione e dell'internazionalizzazione dell'economia, è dunque per Occhetto uno degli obiettivi che impongono alla sinistra una ricomposizione politica e anche un rinnovamento della propria cultura [siamo già nell'ottica che ci si debba adeguare alla globalizzazione liberista e che non sia più possibile un'alternativa di sistema, ndr]. Non si tratta - ha avvertito, riferendosi forse anche agli strali di Natta - di fare esclusivamente i conti con i propri antenati, né di abbandonare le idealità del socialismo per passare sulla sponda dell'individualismo [misero tentativo di mascherare la propria manovra facendola passare come un atto di fedeltà al socialismo, ndr]. L'obiettivo è per il PCI una società in cui lo sviluppo della creatività individuale sia facilitato da una rinnovata tensione socializzante: anche se per arrivarci occorre una ricerca che non si può ancorare a antiche ortodossie. [l'attacco alle ortodossie è una costante per chi attacca il marxismo, ndr]»
In tempi recenti Guido Liguori263 ha ricostruito puntualmente le vicende che hanno condotto alla fine del PCI. Emerge bene il ruolo da protagonista avuto da Occhetto, in questo non dissimile da quello avuto da Gorbačev nell'URSS. Nell'inadeguatezza generale della dirigenza, egli ha guidato in prima persona, con scelte improvvisate e non concordate con la Direzione del Partito, la nota “svolta della Bolognina”, rincretinito da anni di un declino elettorale dovuto in parte al mutato clima internazionale, in parte agli errori di politica interna dello stesso PCI, capace di dividersi perfino nella sacrosanta battaglia voluta da Berlinguer sul referendum per la Scala Mobile. Occhetto non avrebbe potuto fare quel che ha fatto se il Partito avesse avuto anticorpi adeguati. L'ala più organizzata guidata da Cossutta e Sacchi non era in grado di insidiarne il potere, ma molti altri dirigenti sì. Pesa su di loro la responsabilità di aver messo l'unità del partito prima della fedeltà al marxismo, così come prima di loro un'uguale responsabilità ha pesato su chi ha lasciato scivolare via il “leninismo”. Un compromesso tira l'altro, favorito da una composizione di classe sempre più eterogenea di un partito di massa sempre meno “operaio”, mai sufficientemente educato politicamente e ideologicamente, se non al rispetto sterile di quella disciplina verso un centralismo mostratosi presto molto più “burocratico” che “democratico”, se non nella forma, nella sostanza. Senza condividere le istanze più pessimiste della conclusione, è utile riportare il giudizio sferzante di Costanzo Preve264 riguardo al rischio di degenerazione del centralismo democratico:
«Togliatti scelse il centralismo democratico, adducendo il ragionevole argomento per cui la cristallizzazione in correnti si presta alla pressione esterna e comporta immobilismo e reciprochi veti paralizzanti. Si disse anche che questo non impediva però il più ampio dibattito che avrebbe preceduto la vera e propria decisione politica definitiva. Si trattava di una falsità assoluta. Chiunque si fosse distinto per aver sostenuto posizioni di dissenso dentro il partito avrebbe certo potuto evitare l’espulsione, ma non l’emarginazione ed il blocco della carriera politica. Faccio qui un solo esempio. Se il cinico baffetto D’Alema si fosse battuto nel 1969 contro l’espulsione del gruppo del Manifesto, anziché votare per l’espulsione con un discorsetto ipocrita e conformista, avrebbe forse potuto giungere nel 1999 ad essere capo del governo ed a fare la guerra del Kosovo per conto dell’imperialismo USA? È assolutamente chiaro ed evidente che il ruolo del dissenziente rompiballe avrebbe impedito ogni sua carriera politica. Questo sistema del conformismo identitario era fatto apposta per favorire una selezione alla rovescia: davanti i manovrieri, i furbacchioni e gli opportunisti, dietro i critici e gli innovatori. Si tratta di patologie tipiche anche delle aziende e delle imprese, che infatti funzionano anch’esse sulla base del centralismo democratico».
Sulla potenzialità di effettuare un adeguato ricambio del gruppo dirigente torneremo successivamente. Diamo ora spazio a Domenico Moro265 che ragiona, a partire da una recensione del testo di Liguori sopra citato, sulle modalità dello scioglimento del PCI:
«Secondo Liguori un elemento centrale nella relativa facilità con cui Occhetto dismette il PCI sta nella cultura organizzativa dei comunisti italiani, cioè nell’abitudine a sostenere il segretario e a salvaguardare l’unità del partito a qualsiasi costo. Si tratta di un argomento fondato, ma non esaustivo. In realtà, la “svolta della Bolognina” di Occhetto non fu un fulmine a ciel sereno, bensì il risultato di una lunga incubazione. Per un periodo di almeno dieci o quindici anni il PCI subisce un “molecolare” processo di trasformazione non solo della sua politica e dei suoi referenti sociali ma soprattutto della sua “visione del mondo”. Si trattò di un processo lento e progressivo (e non uniforme in tutti i suoi settori) di abbandono del marxismo, anziché di aggiornamento alle mutate condizioni storiche, come sarebbe stato necessario. La liquidazione del pensiero critico si articolò su tre questioni. La prima è il concetto di democrazia. Questa venne concepita sempre di più come un “valore universale autonomo”, finendo per dimenticare che in una società caratterizzata da differenze di classe non può esserci vera democrazia, o come un sistema di procedure, una “tecnica” e perciò neutrale dal punto di vista di classe. Il secondo è l’interpretazione dello Stato visto come entità ancora una volta neutrale e non come organismo, che, pur attraverso forme mutevoli di mediazione tra le classi, ha come obiettivo la difesa dei rapporti di proprietà vigenti. Tale concezione fu favorita da una interpretazione parziale di Gramsci e della categoria di egemonia. Per Gramsci lo Stato era “egemonia corazzata di coercizione”. L’aspetto coercitivo fu espunto dall’orizzonte teorico del PCI come del resto avvenne con il ruolo conservatore sulla trasformazione democratica dello stato esercitato della burocrazia statale, che invece era ben presente in Gramsci. Lo stesso Liguori vede la giustificazione di Berlinguer del “compromesso storico” con il colpo di Stato in Cile come un fatto del tutto strumentale. Mentre dimostra anche quanto pesasse il ricatto dell’uso della forza in periodo, nel quale – non scordiamolo – era in atto la “strategia della tensione”. Infine, il terzo aspetto, che deriva dai precedenti, è il tipo di critica all’URSS. La critica all’URSS non venne incentrata sull’estromissione della classe lavoratrice dal controllo dello Stato e della produzione, cioè sull’assenza di una democrazia dei lavoratori. Al contrario, si assunse progressivamente il punto di vista dell’Occidente, sostituendo il principio ideologico di democrazia formale a quello di liberazione concreta dal dominio e dallo sfruttamento di classe. In buona sostanza, come sosteneva all’epoca Umberto Cerroni, uno degli intellettuali più rappresentativi del nuovo corso del PCI, la democrazia è valida in sé e non ha bisogno di aggettivazioni (democrazia dei lavoratori o borghese), riecheggiando quanto scriveva nel 1990 il gorbacioviano Medvedev […]: “Ma l’umanesimo e la democrazia non sono soltanto mezzi ma anche valori universali autonomi”. […] Così il PCI subì un lento processo di svuotamento culturale dall’interno che eliminò, fra la massa dei suoi iscritti e dei suoi quadri, gli strumenti di analisi della società, gli “anticorpi” che avrebbero dovuto preservarlo a fronte della caduta dei paesi dell’Est. Eppure il PCI non diventa un “normale” partito socialista o socialdemocratico. Perché? In primo luogo, perché il clima internazionale è cambiato con l’affermazione neoliberista di Thatcher e Reagan negli anni ’80, ed anche la socialdemocrazia europea sta mutando. Punto di riferimento è sempre meno il riformismo socialista e sempre di più la liberaldemocrazia. Ne è testimonianza la fortuna presso la sinistra italiana ed europea del filosofo e sociologo liberale Ralf Dahrendorf, che aveva fatto l’esperienza della collaborazione tra socialdemocratici e liberali tedeschi. In secondo luogo, perché le forze sociali e ideologiche che in Italia spingono per la trasformazione del PCI non premono per un partito socialdemocratico ma per un partito che non sia in alcun modo espressione della classe operaia e delle masse popolari. Si tratta di forze importanti economicamente e culturalmente, identificabili, come non manca di sottolineare Liguori, nella finanza laica. Legati a questa, il gruppo l’Espresso e la Repubblica svolsero un non sottovalutabile ruolo nel processo di smobilitazione del PCI, continuando a svolgere un ruolo di direzione politico-culturale sul PdS, sui DS e ora sul PD. Né va tralasciato il ruolo del blocco socio-economico legato al mondo della cooperazione, presente soprattutto nel PCI emiliano, che rappresentò, come evidenzia lo stesso Liguori, il principale sostegno interno a Occhetto. In sintesi, una volta abbandonato il marxismo, il partito tende a prendere “spontaneamente” le ideologie che sono dominanti all’interno della società e che sono influenzate dai settori sociali che controllano i mezzi di comunicazione e di produzione culturale. Il risultato, comunque, fu l’affermazione sul piano culturale di un eclettismo in cui non esisteva più la centralità dei lavoratori e del conflitto lavoro salariato-capitale e con essa neanche la necessità di un partito socialdemocratico. Vengono, invece, mischiate in un gran calderone molte questioni (quella di genere, quella ecologica, quella morale) che, anziché essere ricondotte ad una critica complessiva al modello di accumulazione capitalistico, diventano ognuna una “issue” a se stante. In conclusione, se dobbiamo rispondere alla domanda iniziale, quello del PCI fu un suicidio assistito da quelle forze sociali ed economiche che avevano tutto l’interesse, da una parte, ad eliminare una rappresentanza politica dei lavoratori e, dall’altra, a favorire la nascita di un partito che rappresentasse le proprie istanze “riformiste” degli assetti della Prima Repubblica. La spinta di molta parte dell’ultimo gruppo dirigente dell’ex PCI all’inizio degli anni ‘90 verso il maggioritario e oggi verso le controriforme istituzionali, che stravolgono la Costituzione, affonda le proprie radici lontano, non solo nella voglia di accedere finalmente al potere dopo decenni di opposizione, ma anche nel lungo processo di stravolgimento della originaria concezione del PCI di democrazia e di Stato».
260. M. Vallieri, Occhetto: “Il papa è l’ultima persona di sinistra rimasta”, Estense, 11 aprile 2017.
261. C. Preve, Da Antonio Gramsci a Piero Fassino, cit., cap. 5 - Palmiro Togliatti e le scelte strategiche del periodo 1943-1948.
262. Il PCI oltre il marxismo, La Repubblica, 5 febbraio 1989.
263. In G. Liguori, La morte del PCI, Manifestolibri, Roma 2009.
264. C. Preve, Da Antonio Gramsci a Piero Fassino, cit., cap. 6 - Palmiro Togliatti e la pratica suicida dell’intellettuale organico.
265. D. Moro, La morte del PCI. Un suicidio “assistito”, CCDP, 29 gennaio 2010.

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