2.2. IL NESSO STORICO TRA LIBERALISMO E RAZZISMO
Decisamente più utile è comprendere il nesso profondo dal punto di vita storico che connette la dottrina liberale e il razzismo. Risulta centrale la Controstoria del Liberalismo di Domenico Losurdo. Di seguito l’estratto di un’intervista all’autore7 che presenta alcuni spunti per capire questo nesso. Invitiamo però caldamente a leggere l’opera integrale.
«Come chiarisce il mio libro, sia sul piano della teoria che della pratica politico-sociale, il liberalismo è sorto come celebrazione non della libertà universale ma di una comunità dei liberi ben determinata. In questo senso le clausole d’esclusione (a danno dei popoli coloniali, dei servi della metropoli, ecc.) sono costitutive di questo movimento ideologico e politico. Esse sono state superate, nella misura in cui sono state superate, non per uno spontaneo processo endogeno, ma in primo luogo sull’onda della sfida rappresentata dalle gigantesche lotte e di emancipazione e per il riconoscimento sviluppate dagli esclusi. Se si assume il termine “liberalismo” nel senso (ideologico) caro a Constant e a Berlin, quale affermazione per tutti di una sfera inviolabile di libertà “moderna” o “negativa” per tutti, è chiaro che non si possono definire liberali gli Stati Uniti e l’Inghilterra del Sette e Ottocento: dalla libertà “moderna” o “negativa” erano chiaramente esclusi i pellerossa condannati all’espropriazione e alla deportazione, gli schiavi, i neri in teoria liberi (ancora in pieno Novecento sottoposti ad una violenza terroristica), i servi bianchi rinchiusi arbitrariamente nelle case di lavoro ecc.; subiva pesanti limitazioni la stessa libertà “moderna” e “negativa” dei proprietari di schiavi o della classe dominante in genere, che ancora a metà del Novecento era tenuta a rispettare il “divieto di miscegenation”, il divieto di rapporti sessuali e matrimoniali interrazziali. Se invece per liberalismo si intende l’autocelebrazione e l’auto-affermazione della comunità dei liberi, con tutti i costi politici e sociali che ciò comporta, è chiaro che gli Stati Uniti e l’Inghilterra del Sette e Ottocento erano società liberali a tutti gli effetti […]. Le reazioni polemiche alla mia Controstoria del liberalismo non hanno mai messo in discussione l’accuratezza della ricostruzione storica. Le critiche sono tutte di carattere teorico. La prima fa appello allo “storicismo”: se anche ha ereditato vecchi vizi, il liberalismo li avrebbe poi spontaneamente superati. In realtà, è proprio con la modernità liberale che il processo di deumanizzazione dello schiavo raggiunge il suo apice: la schiavitù ancillare cede il posto alla schiavitù-merce su base razziale, e questa trova la sua consacrazione nella Costituzione americana; emerge il primo Stato razziale, che continua a sussistere anche dopo l’abolizione formale della schiavitù. Tra fine dell’Ottocento e primi decenni del Novecento infuria negli Stati Uniti un regime di white supremacy (segregazione ad ogni livello, divieto di rapporti sessuali e matrimoniali interrazziali, linciaggi contro i neri che diventano spettacoli di massa ecc.), che non trova paralleli nei paesi dell’America Latina. […] Prendendo esplicitamente le distanze da Marx e tanto più dal “marxismo” volgare, il mio libro si misura col liberalismo a partire per l’appunto dal tema della libertà dell’individuo. Non erano “individui” gli indiani da Washington assimilati a “bestie selvagge della foresta”, né lo erano i neri, destinati ad essere schiavi e ad essere scambiati come merci. Non erano “individui” neppure i lavoratori salariati della metropoli, considerati e trattati alla stregua di “strumenti vocali” (Burke) o di “macchine bipedi” (Sieyès). E questi non-individui erano esclusi dal godimento non solo dei diritti politici ma anche di quelli civili. Immediatamente evidente per i pellerossa e i neri, ciò vale anche per i servi della metropoli, rinchiusi in quanto “vagabondi” in questa sorta di campo di concentramento che sono le “case di lavoro”, e a centinaia o migliaia “quotidianamente impiccati per delle inezie”, secondo l’osservazione di Mandeville, il quale però, in nome della salvezza della “nazione”, esige la condanna a morte anche dei sospetti. Il liberalismo è così poco sinonimo di difesa della libertà dell’individuo che questa finisce con l’essere pesantemente limitata persino per i membri della classe dominante: ancora a metà del Novecento, una trentina di Stati dell’Unione vietavano per legge i rapporti sessuali e matrimoniali interrazziali; il potere politico interveniva anche nella camera da letto! D’altro canto, alla fine dell’Ottocento, due autori tra loro così diversi quali Nietzsche e Oscar Wilde, con giudizio di valore negativo o positivo, considerano il socialismo come un movimento “individualista”, in quanto impegnato nella lotta per il riconoscimento della dignità di “individuo” anche ai cosiddetti strumenti di lavoro, esclusi dalla teoria e dalla pratica liberale. Bisognerà attendere ancora qualche decennio (e cioè Lenin e la rivoluzione d’Ottobre) perché tale dignità sia riconosciuta anche ai popoli coloniali. Naturalmente, è più facile attenersi al manicheismo oggi imperante. Il risultato è però sotto gli occhi di tutti: il liberalismo smarrisce il suo elemento di grandezza (l’affermazione, sia pur contraddittoria, della necessità della limitazione del potere) per divenire un’ideologia della guerra e del dominio planetario».
7. Redazione Arianna Editrice, Controstoria del liberalismo (intervista a Domenico Losurdo), Ariannaeditrice.it, 29 ottobre 2006.