2.2. IL NERO E IL LINGUAGGIO
Di seguito un'altra analisi di Fanon, questa volta dedicata all'importanza psico-sociale e politica del linguaggio11:
«Per noi il fenomeno del linguaggio ha un'importanza fondamentale e perciò consideriamo assolutamente necessario questo studio che deve poterci fornire uno degli elementi di comprensione della dimensione per l'altro dell'uomo di colore. Poiché è chiaro che per l'uomo parlare significa esistere, in assoluto, per l'altro. […] Parlare significa essere in grado di usare una determinata sintassi, possedere la morfologia di questa o quella lingua, ma significa soprattutto assumere una cultura, sopportare il peso di una civiltà. Poiché la situazione non è a senso unico, l'esposizione ne risente. Ma mi si vorrà pure concedere certi punti i quali, per inaccettabili che possano sembrare all'inizio, troveranno nei fatti la misura della loro esattezza. II problema che esaminerò in questo capitolo è il seguente: il Nero delle Antille sarà tanto più bianco, cioè si avvicinerà tanto più al vero uomo, quanto più avrà fatto sua la lingua francese. Non ignoriamo che è appunto questo uno degli atteggiamenti dell'uomo di fronte all'Essere. Un uomo che possiede il linguaggio possiede per immediata conseguenza il mondo espresso e implicato da questo linguaggio. […] Ora vorrei dimostrare perché il Nero delle Antille, chiunque esso sia, deve sempre porsi di fronte al linguaggio. Di più amplierò il settore della mia descrizione e, attraverso il Nero delle Antille, cercherò di analizzare ogni uomo colonizzato. Ogni popolo colonizzato, cioè ogni popolo in cui si sia instaurato un complesso di inferiorità a causa dell'avvenuta distruzione dell'originalità culturale locale, è posto di fronte al linguaggio della nazione civilizzatrice, cioè della cultura metropolitana. Il colonizzato si allontanerà tanto maggiormente dalla “foresta” che gli è propria, quanto più avrà fatto suoi i valori culturali della metropoli. Sarà tanto più bianco quanto più avrà rigettato la sua nerezza, la sua “foresta”. Nell'esercito coloniale, e specialmente nei reggimenti dei fucilieri senegalesi, gli ufficiali indigeni sono innanzitutto degli interpreti: trasmettono ai loro confratelli gli ordini del capo e di conseguenza godono anch'essi di una certa onorabilità. […] In un gruppo di giovani delle Antille, colui che si esprime bene, che possiede la padronanza della lingua, è enormemente temuto; bisogna fare attenzione a costui, è un quasi Bianco. In Francia si dice: “parlare come un libro stampato”. In Martinica: “parlare come un Bianco”. II Nero all'atto di entrare in Francia reagisce contro il mito del martinicano “che mangia l'erre”. Se ne fa un cruccio ed entrerà in conflitto aperto con se stesso. Si metterà non solo a pronunciare le erre ma ad arrotarle. Spierà le minime reazioni, si ascolterà parlare diffidando della propria lingua così tremendamente pigra, si chiuderà in una stanza e leggerà per ore e ore, accanendosi nella dizione. […] Il professor Achille, insegnante al liceo du Parc a Lione, in una conferenza citava un caso occorsogli personalmente. È un'avventura universalmente nota e rari sono i Neri residenti in Francia che non l'abbiano vissuta. Cattolico, partecipava a un pellegrinaggio di studenti. Un prete, scorgendo nel suo gruppo quella faccia abbronzata, gli si rivolse con queste parole: “Tu perché lasciata grande Savana e venire con noi?”. L'interpellato rispose cortesissimamente e chi fece le spese dell'accaduto non fu certamente il giovane disertore delle Savane. Si rise di quell'equivoco e il pellegrinaggio continuò. Ma se ci soffermiamo un attimo a esaminare il fatto vediamo che la ragione per cui il prete si è rivolto in francese storpiato richiama a diverse considerazioni:
1. “Io li conosco i negri. Bisogna rivolgersi loro con gentilezza, parlargli del loro paese. Saper parlare con loro, questo è il punto. Cercate piuttosto...” Non esagero: un Bianco nel rivolgersi a un Nero si comporta esattamente come un adulto con un monello e ricorre a una serie di piccole smancerie, mormora, gesticola, parla forte, ecc. Non abbiamo visto far così un solo Bianco, ma centinaia. E le nostre osservazioni non si sono limitate a questa o a quella categoria, ma, valendoci di un atteggiamento il più possibile obiettivo, abbiamo voluto studiare il fenomeno nei medici, negli agenti di polizia, negli impresari edili sul luogo di lavoro. Mi si dirà, dimenticando con questo il mio scopo, che avrei potuto rivolgere anche altrove la mia attenzione, e che esistono Bianchi i quali non rientrano nella descrizione che sto facendo. Risponderò che qui io sto facendo il processo ai mistificati, ai mistificatori, agli alienati e che, se è vero che esistono anche dei Bianchi che si comportano nel giusto modo nei confronti di un Nero, è proprio il loro caso che in questa sede non deve essere catalogato. Se riscontro che il fegato di un mio malato funziona non per questo gli dico: i tuoi reni sono sani. Riscontrato che il fegato è normale, abbandono questo organo alla sua normalità e volgo la mia attenzione ai reni. Nel nostro caso i reni sono malati. Il che vuol dire che accanto a gente normale che si comporta in modo sano, secondo una psicologia umana, ve n'è che si comporta patologicamente, secondo una psicologia disumana. Ed è chiaro che l'esistenza di questo secondo genere di uomini ha determinato un certo numero di situazioni reali alla cui liquidazione vogliamo contribuire. Parlare ai negri in questo modo, significa andar loro incontro, metterli a loro agio, significa farsi capire da loro, rassicurarli... Lo si può chiedere a tutti i medici d'ambulatorio. Passano venti ammalati europei: “S'accomodi prego, che cosa si sente?”. È la volta di un negro o di un arabo: “Siediti, amico. Cos'hai? Dove senti male?”. Quando non addirittura: “Tu cosa non andare?”.
2. Parlare francese storpiato con un negro significa metterlo a disagio, perché egli si sente “quello che parla francese storpiato”. Ma, mi si dirà, non c'è intenzione, non c'è volontà di mettere a disagio. Lo ammetto, ma è proprio questo “non voler espressamente”, questa noncuranza, questa disinvoltura con cui si guarda, con cui si imprigiona, si primitivizza l'uomo di colore, che è vessatoria in se stessa. Se chi si rivolge in francese storpiato a un uomo di colore o a un arabo non riconosce nel suo atteggiamento un errore, un vizio, è perché non ha mai riflettuto bene. […] Si capisce allora dopo tutto quello che abbiamo detto che la prima reazione del Nero sia di dire no a tutti quelli che cercano di circoscriverlo. Si capisce come la prima azione del Nero sia una reazione, e poiché il Nero è apprezzato in proporzione al suo grado di assimilazione, si capisce anche che il reduce dalla metropoli di cui parlavamo all'inizio si esprima soltanto in francese. E questo fatto tende a render più evidente la rottura a che ormai si e prodotta. Il reduce rappresenta un tipo di uomo che si impone a compagni e a parenti. E alla vecchia madre che non lo capisce più egli parla delle sue camicie, della bicocca in disordine, della baracca... E tutto ciò abbellito con il tono che si conviene. […] Parlare una lingua vuol dire assumere un mondo, una cultura. L'antillano che vuol essere bianco lo sarà tanto più quanto maggiormente avrà fatto suo quello strumento culturale che è il linguaggio. Ricordo (è poco più di un anno) a Lione, dopo una conferenza in cui avevo tracciato un parallelo fra la poesia nera e la poesia europea, quel compagno metropolitano che mi diceva calorosamente: “In fondo, tu sei un Bianco”. Il fatto che io avessi studiato attraverso la lingua del Bianco un problema così interessante, mi dava diritto alla cittadinanza. Storicamente bisogna capire che il Nero vuol parlare francese, perché questa è la chiave capace di aprire tutte le porte che, ancora cinquant'anni fa, gli erano chiuse. Ritroviamo negli antillani che entrano nel quadro della nostra descrizione una ricerca di sottigliezze, di rarità di linguaggio che va di pan passo con la ricerca di mezzi atti a provare a se stessi un adeguamento alla cultura».
11. F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche: il nero e l'altro, Marco Tropea Editore, Milano 1996 [1° edizione originale 1952], pp. 15-33.