02. IL CONTRIBUTO TEORICO RIVOLUZIONARIO DI FRANTZ FANON
Frantz Fanon (Fort-de-France, 20 luglio 1925 – Bethesda, 6 dicembre 1961) è stato uno psichiatra, scrittore e filosofo francese, nativo di Martinica e rappresentante del movimento terzomondista per la decolonizzazione. Leggiamone alcuni aspetti biografici significativi6:
«Diventato psichiatra, nel 1953, a ventinove anni, arriva all'Ospedale Psichiatrico di Blida e rimane sconcertato allo scoprire che la scuola psichiatrica dell'Algeria coloniale classifica gli arabi algerini come “primitivi”, affermando che il loro sviluppo cerebrale era “sottosviluppato e ritardato”. Così, per gli psichiatri coloniali, i comportamenti patologici degli indigeni derivavano da cause genetiche e quindi incurabili. Fanon scopre allora l'espressione cruda della gerarchia di razza e di una segregazione violenta, comparabile all'apartheid. L'inizio della guerra di liberazione nazionale, il 1° di novembre del 1954, ha naturalmente un forte impatto sull'ospedale, che riceve via via pazienti traumatizzati dall'esperienza della violenza (alcuni casi sono menzionati ne I dannati della terra). Attraverso i militanti della causa algerina, medici e attivisti, che si occupano dei muyaidin feriti, Fanon entra in contatto diretto con l'FLN (Fronte di Liberazione Nazionale). Nel 1956, il governo imbocca deciso una politica di repressione militare brutale e generalizzata, e Fanon rinuncia all'incarico di psichiatra, venendo successivamente espulso dalle autorità coloniali nel 1957; si rifugia quindi in Tunisia, sede estera della rivoluzione algerina. Riprende in Tunisia le sue attività professionali, e contemporaneamente si coinvolge profondamente nella politica del FLN. Diventa giornalista per FLN, nel giornale El moudjahid e viene nominato ambasciatore itinerante per l'Africa dal governo algerino in esilio. Visita con questo incarico il Ghana dove incontra Kwame Nkrumah e studia da vicino i problemi della nascita di uno Stato Africano indipendente; in Congo conosce Patrice Lumumba, visita poi Etiopia, Liberia, Guinea e Mali. La sua missione era rendere popolare nel resto del continente la lotta degli algerini attraverso il consolidamento di alleanze fra i popoli africani e la messa in pratica di quell'internazionalismo che caratterizzava il suo pensiero. Grazie alla sua azione sui dirigenti del Mali, si apre nel 1960 un nuovo fronte nel sud dell'Algeria, al quale la Guinea fornisce le armi. Allo stesso modo riesce a giocare un ruolo importante nella spedizione di armi sovietiche al fronte ovest, grazie alla solidarietà del Presidente Sekou Toure. Nel 1959, l'editore francese François Maspero pubblica il secondo libro di Fanon, Il V anno della rivoluzione algerina (libro sequestrato immediatamente), che non è solo un accusa alla Francia per i crimini compiuti sulla popolazione algerina – cinquant’anni dopo l'indipendenza algerina, la Francia inizia appena a riconoscere alcuni dei suoi crimini, le proprie responsabilità nel saccheggio sistematico dell'Africa, ma ancora risulta difficoltoso aprire completamente questo capitolo oscuro della storia francese - ma anche di un'analisi della rivoluzione algerina e delle trasformazioni che la creano dentro una società dominata, umiliata e gravemente impoverita. L'opera viene proibita in Francia, ma ciò non impedisce che si inizi a parlare di Fanon in Africa e nel Terzo Mondo. Viene invitato a forum internazionali, dove viene ascoltato attentamente fino a costringere le autorità francesi a prenderlo in considerazione (come se fosse diventato bianco)».Diventa famoso soprattutto per l'opera I dannati della terra (1961, pubblicata postuma). Leggiamo il ritratto di questo protagonista del risveglio africano fatto da Miguel Mellino7:
«Fanon morì stremato dalla leucemia pochi giorni dopo l’uscita della sua opera più nota: I dannati della terra. Anticolonialista radicale, morto malvolentieri “nel paese dei linciatori”, nulla di meglio che ricordare una sua lettera ad un amico poco prima della morte per rendere lo stato d’animo che attraversa questo testo: “Caro Roger, la morte è sempre tra di noi e quindi ciò che conta non è sapere se possiamo evitarla ma piuttosto se abbiamo raggiunto il massimo delle idee per cui abbiamo lottato. Ciò che mi scoraggia qui nel mio letto di ospedale, mentre sento la mia forza andare via insieme al mio sangue, non è la morte in sé, ma morire di leucemia negli Stati Uniti, quando tre mesi fa avrei potuto morire combattendo il nemico, poiché sapevo di essere malato. Non siamo nulla su questa terra se non siamo prima di tutto schiavi di una causa, della causa dei popoli, della causa della giustizia e della libertà. Sappi che fino all’ultimo non farò che pensare al popolo algerino e ai popoli del Terzo Mondo, e che ogni mia perseveranza sarà solo per la loro causa”.
Come sappiamo, la causa per cui Fanon lottò ebbe la sua prima importante vittoria con la conquista dell’indipendenza dell’Algeria quasi un anno dopo questa lettera. […] I dannati della terra è stato uno dei testi più popolari negli anni Sessanta e Settanta in tutto il mondo. In buona parte dei paesi coloniali, divenne uno dei testi principali di riferimento per ogni militante impegnato nelle lotte di liberazione nazionale: sia contro ex potenze colonialiste intenzionate a conservare il proprio dominio, sia contro governi militari e democratici “indigeni”, ma ritenuti complici della politica neocoloniale degli Stati Uniti nei tre continenti del Sud del mondo. Anche all’interno degli Stati Uniti, il testo di Fanon non impiegò molto a diventare una sorta di manuale di formazione rivoluzionaria presso alcuni dei gruppi politici più radicali di quegli anni, ovvero nei campus in rivolta così come tra gli attivisti neri del Black Power o tra i militanti del “Black Panther Party”. Bobby Seale e Huey P. Newton, fondatori delle Pantere nere, consideravano il testo di Fanon di importanza fondamentale per le lotte antirazziste delle comunità afroamericane. […] Mentre l’enorme popolarità de I dannati nei movimentati campus di allora è qualcosa che si può desumere dall’odio espresso da Hannah Arendt (nel suo Sulla violenza) nei confronti di tutti quei giovani bianchi e neri stregati dai “peggiori eccessi retorici di Fanon” e dalla sua “esaltazione della violenza”. In Europa, la sua ricezione è stata diversa. Il testo ebbe certamente notorietà e vi furono adesioni entusiaste, come quelle di Sartre e Simone de Beauvoir, di Giovanni Pirelli in Italia e del gruppo di intellettuali e attivisti riuniti a Parigi attorno alla rivista Partisans. Ma nel complesso l’atteggiamento riservato a I dannati da parte delle sinistre e dagli ambienti politici europei più radicali dell’epoca oscillò tra un’accettazione “paternalistica”, cioè meramente simpatetica (più che teorica e politica), la rimozione (consapevole) e molto spesso anche la critica frontale. I motivi di questo mancato incontro tra il pensiero politico radicale dominante nell’Europa di quegli anni e il terzomondismo di Fanon non sono difficili da rinvenire. Molto schematicamente, si può dire che il linguaggio esistenzialista, dialettico e umanistico di Fanon, il suo nazionalismo intransigente (per quanto rivoluzionario e atipico), le sue idee di un proletariato industriale europeo ritenuto integrato al progetto di dominio capitalistico, e il suo costante accento sui contadini e sul sottoproletariato urbano dei paesi meno avanzati in quanto unici soggetti potenzialmente rivoluzionari erano concezioni alquanto distanti da quelle particolari “strutture del sentire” che sono andate affermandosi negli ambienti radicali europei attorno al 1968».
Non c'è da stupirsi che il marxismo occidentale del periodo, ormai sempre più dimentico del marxismo-leninismo e sulla via del revisionismo, non comprenda o accetti pienamente il carattere rivoluzionario di un teorico come Fanon. Losurdo ha messo bene in rilievo, ne Il marxismo occidentale: Come nacque, come morì, come può rinascere, come una delle caratteristiche del distacco dal marxismo occidentale da quello ortodosso sia stata proprio la nuova rimozione della questione coloniale, ricadendo sempre più nell'errore già compiuto dalla Seconda Internazionale che a inizio '900 dibatteva con molte difficoltà, ambiguità e incertezze sulla questione, giustificando non di rado le invasioni coloniali e il loro presunto ruolo progressivo. Torniamo a Mellino:
«Quanti di noi non hanno pensato a Fanon e a questo suo “manifesto per la decolonizzazione” mentre le bombe della Nato colpivano l’Afghanistan prima, l’Iraq poi e la Libia ora? Quanti di noi non hanno mai pensato a Fanon durante le insurrezioni nelle banlieues parigine del 2005? Quanti di noi non vi hanno mai pensato di fronte alle consuete invettive contro veli e burqa da parte dei governi europei oppure di fronte al loro continuo inneggiare contro il multiculturalismo, contro quel meticciato che connota oramai in modo irreversibile i nostri spazi metropolitani? Come non pensare a I dannati della terra e al suo programma per la decolonizzazione dell’Africa quando si parla della situazione attuale di paesi come la Costa d’Avorio, lo Zimbabwe o la Nigeria? Oppure di fronte a quelle rivolte che oggi, a pochi chilometri dall’Italia, stanno sconvolgendo gli assetti politici del Maghreb, ovvero proprio di quella terra in cui Fanon aveva riposto le sue speranze rivoluzionarie? Eppure, anche se lo spettro di Fanon continua ad aggirarsi dietro eventi come questi, non è mai facile afferrare in modo nitido quel qualcosa di terribilmente attuale che emana dai suoi testi e che li lega cosi visceralmente a tanti dei fenomeni che abbiamo sotto gli occhi. A cinquanta anni dalla pubblicazione di quel testo, dunque, Fanon continua a interpellarci. Il suo grido disperato, la sua indignazione, le sue scelte radicali di fronte al perdurare della violenza economica e culturale inflitta da secoli dal colonialismo e dal razzismo su milioni di uomini e di donne continuano a metterci alla prova; ci sollecitano a passare ancora una volta attraverso i suoi testi non soltanto per cogliere qualcosa di più del mondo che abbiamo di fronte, ma anche per confrontarci con quel resto inafferrabile che ci parla della loro incessante attualità. Per tutto questo, ai fini di una comprensione politica più efficace del nostro presente, rileggere I dannati della terra oggi può rivelarsi ancora un esercizio di grande utilità. […]Merita infine di essere letta questa relazione, realizzata da rappresentati della Fondazione a lui dedicata e presentata al IV incontro degli Afrodiscendenti e le Trasformazioni Rivoluzionarie in America e nei Caraibi, tenutosi a Caracas, dal 20 al 22 giugno 20118:
Forse è proprio questo uno degli insegnamenti fondamentali che si può trarre da Fanon: nessuna conoscenza è mai disinteressata; nessun sapere è mai politicamente imparziale. Ogni analisi culturale e politica della realtà, ogni enunciato, presuppone un posizionamento, una scelta precisa, uno schieramento. Fanon fu molto chiaro su questo punto: a nulla servono i discorsi astratti sull’uomo, sull’umanità – come quelli tipici della tradizione liberal-democratica occidentale o della fenomenologia esistenziale europea di Sartre, Freud e Merleau-Ponty – se ciò che abbiamo di fronte non è una condizione umana comune, ma un mondo gerarchicamente diviso, un uomo amputato dalla sua umanità, ovvero un’intersoggettività barrata dalla violenza coloniale, dall’applicazione secolare di saperi, leggi, politiche ed economie razzializzate al governo degli uomini. È chiaro che il mondo di Fanon non è più il nostro mondo, ma l’attualità dei suoi testi sta nel fatto che siamo ancora alle prese con gli effetti di quello che egli chiamò “Europa”, ovvero una combinazione mostruosa di capitalismo e razzismo. I movimenti di liberazione nazionale hanno vinto, ma hanno anche perso. O viceversa. Poco importa. Entrambe le opzioni ci suggeriscono la stessa cosa: a parlarci dell’attualità dell’archivio fanoniano, a garantire la sua inarchiviabilità rispetto alla memoria e all’oblio, è soprattutto il suo racconto della lotta per la decolonizzazione, il suo progetto postcoloniale, nella sua “triplice dimensione”, ovvero nella sua natura insurrezionale, costituente e redentiva allo stesso tempo. Decolonizzazione significava infatti per Fanon lottare con ogni mezzo necessario per sottrarre la vita dalle forze che finiscono per soffocarla e annientarla. Fanon ci interpella ancora oggi perché:
1) la realtà e l’idea dell’Impero sono ancora tra di noi […];
2) quella realtà multiforme e razzializzata – caratterizzata dalla coesistenza di diversi regimi di lavoro, di diverse temporalità storico-culturali, di diverse gerarchie e status di cittadinanza – che secondo Fanon era tipica delle colonie oggi costituisce un elemento primario della composizione di classe nei nostri spazi metropolitani e infine
3) i processi di valorizzazione del capitalismo neoliberale contemporaneo, combinando “accumulazione per espropriazione” e “finanziarizzazione”, cercano oramai di appropriarsi non soltanto dei mezzi di produzione ma anche delle nostre vite. Così, l’uomo integrale di Fanon – il suo progetto di decolonizzazione e riumanizzazione dell’umanità – rialza la testa in ogni lotta del presente finalizzata alla riappropriazione della vita; in ogni lotta del presente che non abbia per oggetto semplicemente un qualche misero ed effimero compenso corporativo, materiale o identitario, ma la ricostituzione di un nuovo comune umano, ovvero che rivendichi in modo determinato l’auto-gestione di tutte le risorse (materiali e intellettuali) come bene comune».
«Progressista e anti-imperialista senza reverenze “teologiche” al Marxismo, vicino ma senza servilismo alcuno al campo socialista. Come diceva il sociologo Immanuel Wallerstein, “Fanon leggeva Marx con gli occhi di Freud e leggeva Freud con gli occhi di Marx”. La liberazione dell'uomo e la sua disalienazione è stata per Fanon l'obiettivo ultimo della sua lotta politica senza stile predefinito, senza rigidezza ma che non ha mai concesso nulla agli avversari. Era un uomo indivisibile, che non può essere ridotto a una dimensione particolare della lotta; antirazzista in nome dell'universalità e anticolonialista in nome della giustizia e della libertà. In nessuna parte del suo pensiero si ritrova una volontà vendicatrice né di stigmatizzazione dei bianchi come vorrebbero presentarlo i teorici dell’“Essenzialismo” e dello “scontro di civiltà”. I suoi detrattori, che ritroviamo fra gli “intellettuali” neoconservatori, cercano di far passare un interpretazione tutta basata su una ipotetica “apologia alla violenza” traducendo in parole la propria ignoranza dell'opera di Fanon e la propria fede razzista. La violenza difesa da Fanon è l'ultimo mezzo per riconquistare se stessi da parte di chi è negato, sfruttato e ridotto in schiavitù, è legittima difesa dei popoli oppressi che soffrono della violenza molto maggiore della dominazione e del disprezzo. Questo l'ha portato a sopravvivere al di là delle generazioni. La sua analisi delle patologie sociali e politiche del razzismo sono di sorprendente attualità; la sue analisi politica, psicologico e sociale sorpassa il contesto nel quale furono elaborate, conservando ancora oggi una grande pertinenza. La sua lucidità e indipendenza di pensiero, lontane dall'isolarlo pur con le riserve espresse da marxisti “ortodossi” prigionieri del dogma, gli permisero di conquistare la stima e il rispetto di combattenti per la libertà e l'indipendenza. È il principale riferimento di militanti illustri quali il Comandante Che Guevara, Amilcar Cabral, Agostino Neto, Nelson Mandela, Mehdi Ben Barka e molti altri. In Africa, in Europa, Fanon appare oggi più attuale che mai. Ha senso per i militanti africani per la libertà e i diritti umani, ha senso allo stesso modo per tutti gli africani e gli arabi nei confronti dei quali si scatena, nei media come nei propositi delle élite di certi Stati, un razzismo senza complessi e organico. Ha senso perché l'emancipazione è la prima meta delle generazioni che puntano alla maturità politica. Molti africani hanno imparato che la lotta per la libertà, la democrazia e i diritti umani sono dirette sì contro i potentati locali, ma allo stesso modo contro i governanti dell'ordine neo-coloniale che li protegge e li utilizza per rubare risorse e poi li scarica quando hanno esaurito le funzioni per le quali sono stati creati e protetti. Il pensiero di Fanon continua ad ispirare oggi tutti coloro che combattono per il progresso dell'uomo in tutto il pianeta. In questo mondo dove il sistema dell'oppressione, lo sfruttamento umano non smette di rinnovarsi e di adattarsi, il suo pensiero è un rimedio contro la rinuncia alla lotta e lo sconforto. È l'arma fornita da una passione lucida per la lotta per la libertà, la giustizia e la dignità di uomini e donne. La liberazione dei popoli e degli individui dalla schiavitù e dall'alienazione rimane ancora oggi l'obiettivo, l'emancipazione verrà».
6. Fondazione Frantz Fanon, Il contributo di Frantz Fanon al processo di liberazione dei popoli, Relazione presentata al IV incontro degli Afrodiscendenti e le Trasformazioni Rivoluzionarie in America e nei Caraibi, Politicaeclasse.org, Caracas 20-22 giugno 2011.7. M. Mellino, Frantz Fanon: Leggere I dannati della terra 50 anni dopo, Controlacrisi.org, 18 maggio 2011.8. Fondazione Frantz Fanon, Il contributo di Frantz Fanon al processo di liberazione dei popoli, cit.