21 Novembre 2024

13. I MERITI STORICI DEL SOCIALISMO REALE

«Il primo effetto rilevantissimo della Rivoluzione è stato quello di mostrare a tutti che il potere delle classi dominanti non è imbattibile, non è eterno e immutabile, ma può essere rovesciato; che nuove classi possono assumere la direzione della società e dello Stato. Né questo è solo un dato ideologico, ma al contrario è un elemento molto concreto dell’esperienza sovietica, laddove il potere, la “cosa pubblica”, erano gestiti da intellettuali rivoluzionari, ma anche e in misura sempre crescente da operai e contadini, e da figli di operai e contadini, che diventavano funzionari, dirigenti di partito, amministratori, dirigenti di fabbrica, quadri dell’esercito; un’ondata straordinaria di mobilità sociale che ha coinvolto milioni di persone. Certo, con tutta la difficoltà di un “processo di apprendimento”, per dirla con Losurdo, di dimensioni storiche; con tutti i deficit di egemonia immaginabili rispetto a quella che nel resto del mondo era rimasta classe dominante con qualche secolo di esperienza in più. E tuttavia mostrando nei fatti che anche “la cuoca può dirigere lo Stato”». (Alexander Höbel)1
Si afferma spesso che il socialismo e il comunismo abbiano fallito anzitutto a livello economico e rimangano al limite validi come meri paradigmi etico-valoriali. Crediamo di aver adeguatamente smentito questo assunto, ma lasciamo la parola a Gianni Cadoppi[2], che nega questo vero e proprio “mito” e riassume altri meriti storici del socialismo reale:
«tre tra i maggiori successi nell'economia del Novecento si devono a paesi socialisti: l'URSS degli anni Trenta ma anche della guerra e della ricostruzione post bellica, la Jugoslavia degli anni Cinquanta e primi anni Sessanta, la Cina dalla fine degli anni Settanta sino ad ora. Eppure è convinzione generale che il comunismo abbia lasciato solo un cumulo di macerie. L'unica economia capitalista il cui tasso di crescita (a lungo termine) ha superato quello dell'URSS è stato il Giappone ma in presenza di un importante intervento statale, insomma con un po’ di “socialismo”. Nel primo dopoguerra in Gran Bretagna c'è una commissione governativa per la pianificazione economica, in molti paesi si parla di programmazione, aziende private d’interesse pubblico vengono nazionalizzate, si ha l'espansione del Welfare State (assolutamente contraria ai principi del liberalismo puro). In USA, negli anni Sessanta, dopo una certa quota le tasse arrivano al 99% dei guadagni. Sotto molti punti vista la concorrenza con l'Unione Sovietica porta paradossalmente al trionfo del “socialismo” in Occidente. A seguito dell’istituzione del suffragio universale in Russia, nel 1917, il liberalismo (tradizionalmente antidemocratico e favorevole al suffragio ristretto in base al censo) passa più o meno rapidamente al diritto di voto per tutti, persino per le donne (in Italia nel 1946) e in America per gli afroamericani (1967). Il XX secolo è l’epoca del trionfo del “socialismo”, lo dico in maniera paradossale, su scala mondiale invece che del capitalismo come vorrebbe la narrazione basata sull’ideologia neoliberista. In particolare gli anni Novanta, come scrive James Kenneth Galbraith, il socialismo trionfa in paesi come Cina, India (anche qui esistono piani quinquennali), Vietnam ecc. mentre il neoliberismo semina solo desolazione e morte dove viene applicato radicalmente (vedi Russia di Eltsin). Il capitalismo puro come abbiamo visto era fallito molto prima del “socialismo reale”».
Ricordiamo ciò a cui allude Cadoppi: il Capitale, lasciato a briglia sciolta, mostra tutto il peggio di sé: la tendenza è all'accumulazione dei capitali privati, alla loro concentrazione e alla formazione di monopoli e oligopoli che costituiscono fonti di potere non solo economico, ma anche politico e militare, tali da diventare più potente di interi Stati sviluppati. Da questo punto di vista il tentativo di estendere il più possibile il “libero mercato” porta al trionfo dell'imperialismo, e va visto anzi dialetticamente come una sua conseguenza. Il tutto avviene in evidente controtendenza con qualsiasi studio scientifico e razionale dell'economia, come notava già sbigottito Hobsbawm3 nel 1994, parlando dell'assurdità della ripresa delle ricette economiche che avevano portato alla crisi economica del 1929:
«la Grande crisi confermò negli intellettuali, in chi era impegnato nell'attività politica e nei comuni cittadini l'opinione che nella realtà sociale in cui vivevano ci fosse qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Chi poteva conoscere il da farsi? Certo pochi tra coloro che detenevano l'autorità e nessuno tra quelli che cercavano di dirigere la rotta con gli strumenti e con le carte di navigazione tradizionali della fede liberista ottocentesca, sui quali ormai non si poteva fare più affidamento. Che fiducia si poteva dare a economisti che, per quanto brillanti, dimostravano con grande lucidità che la crisi nella quale essi stessi vivevano non sarebbe potuta accadere in una società condotta correttamente secondo le regole del libero mercato, poiché (secondo una legge economica designata col nome di un francese dei primi dell'Ottocento) non poteva esserci alcuna sovrapproduzione che ben presto non si autocorreggesse? Nel 1933 non era facile credere, per esempio, che se la domanda e dunque il consumo crollano in una situazione di depressione economica, il tasso d'interesse cala anch'esso di quanto è necessario per stimolare gli investimenti, cosicché l'accresciuta domanda di investimenti colma esattamente il vuoto lasciato dalla più ridotta domanda di beni di consumo. Mentre la disoccupazione saliva alle stelle, non sembrava plausibile l'idea (alla quale apparentemente si atteneva il Tesoro britannico) che i lavori pubblici non avrebbero affatto accresciuto l'occupazione, perché il denaro speso per finanziarli sarebbe stato semplicemente sottratto dal settore dell'iniziativa privata, dove, se fosse rimasto, avrebbe potuto generare altrettanta nuova occupazione. Gli economisti che suggerivano soltanto di non intervenire in economia e i governi che, seguendo il loro primo istinto, restavano fedeli a una dottrina finanziaria tradizionale e, a prescindere dalla difesa del sistema aureo con politiche deflattive, si limitavano a tenere i bilanci in pareggio e a tagliare le spese non riuscivano evidentemente a migliorare la situazione. Così, perdurando la depressione, si cominciò a sostenere a gran voce da personaggi come J. M. Keynes – che divenne perciò l'economista più influente dei quarant'anni successivi – che tali politiche tradizionali peggioravano la depressione. A chi come me è vissuto durante quegli anni riesce quasi impossibile capire come le dottrine rigidamente liberiste, allora ovviamente in discredito, possano essere tornate in voga in un periodo di depressione quali quello degli ultimi anni '80 e degli anni '90, nel quale, di nuovo, esse hanno dimostrato la loro inadeguatezza teorica e pratica. Tuttavia questo strano fenomeno dovrebbe farci venire alla mente un grande aspetto della storia che esso esemplifica: la incredibile brevità della memoria sia dei teorici sia degli operatori dell'economia. Esso offre anche una chiara dimostrazione di come la società abbia bisogno degli storici, i quali assolvono il compito professionale di ricordare ai loro concittadini ciò che questi desiderano dimenticare».
I secoli dell'età contemporanea (dal XIX a oggi) sono il periodo dell'espansione del capitalismo maturo, per alcuni associato al paradigma liberista, per noi a quello imperialista; sono caratterizzati da una crescita impetuosa, durante la quale il Capitale ha trovato un freno al proprio potere solo nella diga costituita dall'Ottobre Rosso e dai regimi socialisti. La borghesia ha cercato di distruggere con ogni mezzo possibile questo argine alla propria espansione, scatenando contro i comunisti e i lavoratori il flagello totalitario del nazifascismo, dando luogo ad uno scontro che ha assunto la forma di una crociata internazionale guidata dagli elementi più reazionari della società mondiale. Il nazifascismo però è stato sconfitto in primo luogo dall'URSS, che acquistando un immenso prestigio internazionale per i propri successi ha imposto indirettamente alle borghesie di tutto il mondo la necessità di moderarsi, pena la propria sconfitta definitiva.
Hobsbawm4 sintetizza questo quadro così:
«solo la temporanea e insolita alleanza del capitalismo liberale e del comunismo, che si coalizzarono per autodifesa contro la sfida del fascismo, salvò la democrazia; infatti la vittoria sulla Germania hitleriana fu ottenuta, e poteva soltanto essere ottenuta, dall’Armata Rossa […]. Senza la vittoria sovietica, oggi il mondo occidentale (al di fuori degli USA) sarebbe governato da una serie di regimi di stampo fascista e autoritario invece che da democrazie liberali e parlamentari. È un'ironia della storia di questo strano secolo che il risultato più duraturo della Rivoluzione d'Ottobre, il cui obiettivo era il rovesciamento del capitalismo su scala planetaria, sia stato quello di salvare i propri nemici, sia nella guerra, con la vittoria militare sulle armate hitleriane, sia nella pace, procurando al capitalismo dopo la seconda guerra mondiale l'incentivo e la paura che lo portarono ad autoriformarsi: infatti, il capitalismo trasse dai princìpi dell'economia pianificata dei regimi socialisti, allora assai popolari, alcuni metodi per una riforma interna».
Hobsbawm sbaglia però a ritenere che sia stato questo il merito più grande dei regimi socialisti. Anche se resta indubbio che il dominio di un regime totalitario come quello nazifascista avrebbe rischiato di governarci tuttora, data la raffinatezza e la spietatezza dei propri metodi repressivi, esso non è stato altro che una forma tesa a combattere con la maggiore violenza possibile la sfida lanciata dai comunisti nel riconoscimento della pari dignità a tutti gli uomini e le donne del mondo, sfidando paradigmi culturali e istituzioni sociali cristallizzatesi da millenni di storia umana. La schiavitù, formalmente eliminata nel corso del XIX secolo, prosegue imperterrita nelle colonie, se non nella forma, nella sostanza, in pieno XX secolo. Si potrebbe dire che prosegua tutt'oggi in molte parti del “Terzo Mondo” e che anzi stia clamorosamente ritornando, seppur in forme nuove, come segnala nel suo ultimo libro Luciano Canfora5. Nel 2013 in Cambogia gli operai erano pagati circa 2 dollari al giorno per svolgere le proprie mansioni, cumulando così uno stipendio mensile medio di 60 dollari, a fronte di una spesa media di 135 dollari per garantire la sopravvivenza della propria famiglia operaia6. Siamo in questo caso ai limiti dei livelli di sussistenza, anzi ben al di sotto. La globalizzazione imperialista ha permesso di portare la “modernità” ottocentesca industriale nel “Terzo Mondo”, consentendo all'Occidente di perpetuare una neo-schiavitù imposta con la forza dei propri Capitali. Eppure il passaggio dalla schiavitù formale allo sfruttamento capitalistico dei salariati ha costituito un progresso storico, in quanto permette ai lavoratori di rivendicare maggiori diritti e una propria dignità, aspetti inesistenti anche solo concettualmente nell'epoca coloniale. Il ruolo storico svolto dall'URSS e dai paesi socialisti nella promozione dell'abolizione del razzismo, della schiavitù, della segregazione razziale e nel sostegno attivo (politico, militare ed economico) alla decolonizzazione nel mondo è clamorosamente inedito a livello storico. Nel giro di pochi decenni sono stati spazzati via imperi le cui fondamenta erano state gettate 500 anni prima. Il mondo e l'umanità sono passati da una tirannica guida bianca ed eurocentrica (il mondo fino alla seconda guerra mondiale) ad uno scontro aperto tra due sistemi antitetici. In questo conflitto il sistema capitalistico non si è dovuto moderare solo nei rapporti tra Capitale e Lavoro, accettando la categoria dei diritti sociali e dei diritti umani, nati formalmente con le costituzioni e le dichiarazioni antifasciste conseguenti al 1945. Il capitalismo ha dovuto almeno mascherare e occultare il proprio carattere imperialistico per almeno 30 anni (1945-1970s), durante i quali l'ideologia liberale si è apparentemente saldata ai concetti e ai valori della democrazia e dell'antifascismo, accettando di superare le tradizionali restrizioni (di censo, di razza e di genere) imposte per stabilire l'inclusività della piena “cittadinanza”. Settori come l'istruzione, la sanità, i sussidi, le pensioni, i diritti lavorativi, sono stati sviluppati a dismisura nei paesi capitalisti su impulso della sfida lanciata dalle società socialiste. Il processo non è chiaramente avvenuto in maniera pacifica né indolore. Le centinaia di colpi di Stato e di destabilizzazioni subìte dagli Stati decolonizzati di tutto il mondo sono lì a dimostrarlo. Se già oggi il ruolo criminale degli USA è ben noto ai popoli di tutto il mondo che ne hanno subìto le angherie, non vi è a riguardo consapevolezza pubblica in Italia, né in senso maggioritario in Occidente. L'Impero statunitense formatosi nel 1945 è riuscito a mascherare la propria stessa esistenza per decenni, nella complicità di migliaia di intellettuali borghesi che hanno scelto la via del collaborazionismo, piuttosto che quella della denuncia. Il controllo statunitense non ha però assunto le caratteristiche del totalitarismo nazifascista, anche se le conseguenze umane e politiche sono state peggiori e assai più durature. Il regime in cui viviamo è oggi definibile come un totalitarismo in cui per ora il ricorso alla forza e alla costrizione è ridotto in Occidente al minimo, ma gli USA dispongono fin da ora di tutti gli strumenti necessari per tentare di mantenere il proprio controllo politico, d'accordo con ampi settori delle borghesie nazionali di tutto il mondo, ancora a lungo. Ricordiamo le denunce fatte da Edward Snowden sulla capacità statunitense di poter controllare qualsiasi strumento telematico e informatico del mondo. La visione di Orwell si è realizzata e descrive perfettamente la realtà dell'Impero capitalista. L'imperialismo però può essere sconfitto, indifferentemente dai mezzi repressivi che è capace di mettere in campo. La forza dei popoli, adeguatamente organizzati e disciplinati, è tale da poter sconfiggere qualsiasi avversità. Il dado è quindi tratto ed è irreversibile: oggi il mondo, per la prima volta dopo svariati secoli, torna ad essere multipolare. Lo era anche nel 1914, è vero, ma in un contesto in cui la competizione era ridotta ad una manciata di paesi occidentali e “bianchi”, accomunati dalla volontà di prevaricare il resto del mondo. Oggi si ha una frammentazione in cui un paese imperialista principale, l'ultima superpotenza mondiale, cioè gli USA, che cerca di mantenere artificialmente in vita il proprio impero sempre più in declino, coesiste con un blocco imperialista in ripresa dopo un declino pluridecennale (l'insieme dei principali paesi capitalisti europei, più in generale le ex-potenze imperialiste di fine '800) e con un insieme di paesi in via di sviluppo (i BRICS) guidati dalla Cina, che si propone come nuovo cardine dell'ordine mondiale, con l'obiettivo dichiarato di garantire a tutti i paesi del mondo la possibilità di uno sviluppo graduale e pacifico che consenta di uscire dai classici vincoli imposti dai paesi imperialisti. Torneremo più avanti ulteriormente su questi punti. Per ora preme insistere sul fatto che il ruolo storico dell'URSS e dei comunisti sia stato di aver creato i presupposti di questa situazione, impensabile senza la riuscita della decolonizzazione. L'URSS ha anche il merito storico di aver garantito il miglior livello di vita mai registrato prima dalle classi popolari non solo in Russia, ma in tutto il mondo. La borghesia dovette condividere le briciole dell'immensa ricchezza accumulata grazie alle politiche imperialiste, con le quali ha continuato a mantenere sotto un dominio sostanziale, quando non formale, il “Terzo Mondo”, grazie all'espansione della finanza, grazie al controllo della tecnologia più avanzata e grazie all'accumulazione di Capitali sostenuta per secoli. Moderazione e calcolo politico sono però venuti meno in Occidente di fronte al rallentamento di una ricostruzione economica che aveva potuto sfruttare gli enormi investimenti esteri statunitensi derivanti dal Piano Marshall. La caduta tendenziale del saggio di profitto intercorsa in maniera sempre più grave nel corso degli anni '70 ha convissuto con la crescita di prestigio in tutto il mondo dell'URSS, ottenuto proprio grazie all’impegno internazionalista a sostegno della decolonizzazione. È in questa fase storica, in cui in Europa occidentale i comunisti minacciano di ridurre ulteriormente i margini di profitto del Capitale, che si fa largo la controffensiva del Capitale su scala economica, con la deregolamentazione finanziaria e l'intensificazione della globalizzazione imperialista, risposta alla lotta di classe operaia in Occidente e alla lotta di classe anticoloniale nel “Terzo Mondo”. Le multinazionali tornano a svolgere quel ruolo neocoloniale che nei secoli precedenti era stato assunto dalle “Compagnie delle Indie”, aziende private che svolgevano di fatto un'azione di penetrazione economica e politica d'intesa con i sovrani europei. La globalizzazione neoliberista, scatenata dal ritorno in grande stile dell'imperialismo aperto e non più “celato”, si è accompagnata sul piano delle relazioni internazionali ad un'offensiva politica, culturale e militare contro quello che negli anni '80 è stato definito da Reagan «l'impero del male», l'URSS, ponendo fine alla “distensione internazionale” a cui si era arrivati negli anni di Brèžnev. In questa situazione, foriera di nuove contraddizioni esplosive su scala mondiale, il blocco socialista ha pagato le contraddizioni accumulatesi nei decenni precedenti, a partire dall'avvento di Chruščëv in poi. La disgregazione del blocco sovietico ha tolto al “Terzo Mondo” un alleato prezioso per fronteggiare la sempre maggiore penetrazione delle multinazionali e ha lasciato campo libero alle borghesie dell'Europa occidentale per attaccare buona parte delle conquiste operaie degli anni precedenti, sfruttando la nuova sovrastruttura dell'Unione Europea come grimaldello per giustificare rapporti di produzione sempre più sbilanciati a favore del Capitale. L'URSS è venuta meno proprio quando il Capitale era pronto ad un nuovo “scontro finale” in cui avrebbe chiuso la lotta per la supremazia con il campo socialista. La battaglia è stata vinta dall'imperialismo e il risultato è stato in Occidente l'era del “pensiero unico”. Non si può però cancellare la Storia: come la fenice anche l’umanità risorge dalla polvere. Dopo la Rivoluzione Francese (1789) si assistette al tentativo di “Restaurazione” dell’“Ancien Régime”; dopo la grande rivolta europea del 1848 si è assistito a governi autoritari che hanno sancito il trionfo della borghesia industriale e finanziaria; dopo la Comune di Parigi (1871), con la nascita delle prime organizzazioni socialiste, si è assistito alla repressione di ogni forma di movimento operaio organizzato, dando sfogo alle pulsioni militariste, razziste e nazionaliste; Dopo la Rivoluzione d’Ottobre (1917) si è assistito alla guerra civile e alla nascita dei fascismi e del nazismo prima, alla minaccia nucleare e alla guerra fredda poi; dal 1991 si sta assistendo all’ennesimo tentativo di riportare indietro le lancette del tempo. Nuove rivolte e rivoluzioni ispirate dalle esperienze socialiste sorgeranno per distruggere l'ordine della sopraffazione e delle iniquità. È il capitalismo stesso a partorire i suoi becchini.
1. A. Höbel, L’Ottobre in una prospettiva storica, Marx21 (web), 6 novembre 2012.
2. G. Cadoppi, Un libro fondamentale per capire le dinamiche dell’economia mondiale, cit. L’articolo è una recensione del libro F. M. Parenti & U. Rosati, Geofinanza e Geopolitica, Egea, 2016.
3. E. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., pp. 127-128.
4. Ivi, pp. 19-20.
5. L. Canfora, La schiavitù del Capitale, cit., pp. 63-72.
6. AC-Solidarité Internationale PCF, In Cambogia, migliaia di lavoratori in lotta per un salario che superi 2 euro al giorno, Solidarite-internationale-pcf.fr-CCDP, 1 ottobre 2014.

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