L’USO STRUMENTALE DI LIBERTÀ, DEMOCRAZIA, DIRITTI UMANI
05-03-2022 16:32 - Le nostre notizie
[Il testo che segue è tratto dal libro A. Pascale, Il totalitarismo “liberale”. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale,
La Città del Sole, Napoli 2018, cap. 9.1-9.4, pp. 153-162.
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È noto che i Paesi socialisti sono stati attaccati in vario modo, ma dal punto di vista propagandistico le accuse di totalitarismo sono state sostenute principalmente con il fatto che in quei Paesi non vi fossero libertà, democrazia e diritti umani. Proviamo a ragionare su tali concetti che costituiscono un potente strumento dell’egemonia imperialista: per anni, infatti, tramite la martellante propaganda mediatica occidentale si è fatto credere che bombardare interi Paesi e commettere crimini contro l’umanità a scopo “umanitario”, sarebbe un mezzo giustificabile e necessario per un radioso avvenire. Tutte le guerre e gli interventi armati vengono abilmente mascherati da “missioni di pace”, o “interventi umanitari”, visto che parlare apertamente di guerra imperialista e neocolonialismo è fortunatamente ancora impossibile. Tra le motivazioni più propagandate delle guerre imperialiste ci sono le affermazioni che vengano fatte per la “democrazia”, per i “diritti umani”, per la “libertà”. Dopo aver analizzato la questione formale-linguistica, analizziamo ora uno per uno questi concetti nella loro sostanza reale.
9.1. “DEMOCRAZIA, STORIA DI UN’IDEOLOGIA”
Il capolavoro di Luciano Canfora, Democrazia. Storia di un’ideologia[1], che analizza il complesso rapporto della democrazia con il tema della libertà, oltre che il suo cammino attraverso la nascita delle istituzioni europee. Canfora parte da una premessa sulla favola della democrazia intesa come invenzione dell’Atene periclea, ma vola ben presto nel cuore della contemporaneità, ricollegandosi alla rivoluzione francese del 1789 e ai fatti conseguenti, mostrando per filo e per segno tutte le contraddizioni delle cosiddette “democrazie liberali” europee: la storia recente di Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia viene analizzata minuziosamente mostrando di fatto come ben rari siano stati i momenti di effettiva democrazia vigenti in tali Paesi e che solo in tempi recenti essi si siano appropriati del concetto stesso della “democrazia”, a lungo rigettato, o orchestrato in modalità tali da favorire di fatto ristrette oligarchie possidenti. Analisi particolarmente interessanti e approfondite riguardano anche il tema della democrazia in conseguenza degli strappi rivoluzionari del 1789 e del 1917: i confronti tra Rivoluzione francese e Rivoluzione russa sono costanti e utili per smentire molti luoghi comuni su tali eventi e sulle costruzioni statali ad essi conseguenti. Troneggia in tutto il percorso una costante consapevolezza: lo sviluppo verso la democrazia è conseguenza primaria della forza delle organizzazioni socialiste e comuniste, sia su scala nazionale che globale. Non manca a tal riguardo un’analisi interessante delle democrazie popolari dell’Europa orientale, oltre che della stessa URSS, così come di diversi eventi fondamentali della storia del movimento operaio.
Un libro eccezionale insomma, capace di tracciare dei percorsi di lettura della storia contemporanea che travalicano quelli proposti dalla storiografia liberale dominante, dandoci un’analisi sincera della complessità storica, politica, sociale e culturale degli ultimi due secoli. Da segnalare che per tali ragioni il libro, commissionato da Jacques Le Goff nell’ambito della serie intitolata “Fare l’Europa”, venne censurato in Germania, dopo essere stato pubblicato in Italia, Spagna e Francia. Per frenarne la diffusione si è accusato Canfora di avere trattato il tema con eccessive simpatie verso l’URSS, Stalin e il comunismo (e quindi per il “totalitarismo”), distorcendo documenti ed esagerando con certi paragoni storici ed interpretazioni storiografiche. A tali accuse, fondate su argomentazioni ridicole, Canfora ha risposto dettagliatamente nella seconda edizione del volume. È perfettamente normale che la borghesia svolga il lavoro di infamare chi cerca di mostrare che la realtà e la verità dei processi storici non corrispondono alla grande narrazione inventata dagli scribacchini al soldo del grande Capitale. Questo non è altro che un motivo in più per leggere e diffondere tale opera il più possibile. Proviamo ora a tracciarne una sintesi, al fine di fornire una dimostrazione concreta delle elaborazioni di Canfora.
9.2. L’EVOLUZIONE VERSO I DIRITTI E LA DEMOCRAZIA NEL '900
Gli studiosi borghesi tendono a operare la distinzione classica tra tre regimi politici principali: nazifascismi, democrazie popolari (regimi comunisti) e democrazie liberali. In questa tripartizione abbiamo visto come si tenda a squalificare i primi due accomunandoli sotto la categoria del “totalitarismo”, mentre si tende a privilegiare l’idea che i diritti e le libertà siano stati garantiti solo nelle democrazie liberali. Lasciamo da parte la critica marxiana della democrazia liberale e analizziamo i fatti storici: in realtà il nesso tra democrazia e liberalismo non è sempre stato tale, ma è una costruzione storica assai recente, diventata di massa solo dopo la Seconda guerra mondiale in chiave anticomunista. Ancora per tutto il XIX secolo, infatti, i liberali proclamano la libertà in antitesi alla democrazia intesa come suffragio universale e diritti per tutti. Il liberalismo viene invece presentato come un “giusto mezzo” tra gli estremi della monarchia assoluta (tirannia) e il regime giacobino ultra-egualitario e democratico. Il modello ideale dei liberali è quindi la monarchia costituzionale, fondata su principio di rappresentanza, suffragio ristretto su base censitaria e diritti civili ma non sociali. In questo modello emergono le questioni dell’inclusione e della libertà. Chi deve poter godere dei diritti secondo l’ideologia liberale? Non le donne, per le quali vige la questione femminile portata avanti dalle suffragette e dai movimenti femministi socialisti. Non i popoli coloniali e le etnie-nazioni non europee: permane a lungo anche da parte di Gran Bretagna e USA la questione della schiavitù, la segregazione razziale e un profondo razzismo. Anche dopo l’abolizione formale della schiavitù (1833 per la Gran Bretagna, 1865 per gli USA) tali fenomeni continuano nelle colonie, diminuendo solo quando i bianchi si trovano in maggioranza demografica: di qui l’autogoverno concesso dagli inglesi a Paesi come Canada, Australia e Nuova Zelanda. La restrizione dei diritti ai popoli coloniali resta effettiva in molti casi fino agli anni ‘60-‘70 del Novecento. La terza restrizione imposta dai liberali nel godimento dei diritti riguarda i poveri: è cioè la questione del censo; il liberalismo a lungo ha rifiutato la democrazia di massa, assegnando il godimento dei diritti politici solo ai possidenti. Ancora nel 1861 il suffragio universale è rigettato da John Stuart Mill. Risale al 1848 a Parigi il primo governo provvisorio repubblicano-socialista in cui entra un operaio (Martin, detto Albert). Uno dei maggiori teorici della democrazia liberale, Tocqueville, in La democrazia in America (1840) esalta il modello schiavista degli USA opponendosi strenuamente al movimento socialista (in particolar modo all’affermazione dei diritti sindacali) e al suffragio universale. Tocqueville non esita invece ad appoggiare le guerre coloniali per l’esportazione della civiltà. Il suo punto di vista è quello del primato della libertà inteso come difesa della proprietà individuale. In tal senso diventa possibile tracciare una linea di continuità tra Tocqueville, Disraeli, Gobineau, USA e Hitler.
Il superamento delle restrizioni ai diritti viene rivendicato tra ‘800 e ‘900 progressivamente attraverso la primaria richiesta dell’allargamento del suffragio: anzitutto è fondamentale il ruolo della II Internazionale (1889-1914) nella rivendicazione del suffragio universale maschile. I partiti di massa moderni nascono in tutto l’Occidente in reazione all’espansione dei socialisti, i primi a fondare organizzazioni popolari di massa. Per quanto riguarda il raggiungimento del suffragio universale assoluto (ossia per le donne e i popoli coloniali) è invece decisivo il ruolo svolto dalla III Internazionale e dalle organizzazioni comuniste. Canfora mostra bene come solo un regime elettorale proporzionale (a dispetto di quello maggioritario) sia però realmente democratico e tale diventa la rivendicazione storica dei comunisti nel ‘900, ottenuta però solo in brevi periodi storici anche nelle democrazie liberali più avanzate. I diritti politici sono diventati la base di rivendicazione dei diritti sociali, ossia:
- la tassazione progressiva e patrimoniale è stata ferocemente osteggiata dai liberali;
- l’espansione del welfare state (pensioni, assicurazioni sociali, diritti sindacali, istruzione, sanità, trasporti) è stata ottenuta sotto la pressione di una durissima lotta di classe;
- per pervenire al controllo macroeconomico da parte degli enti pubblici (pianificazione, keynesismo e abbandono del liberismo) e ad un nuovo concetto di liberalismo (1945-75) sono stati determinanti lo stimolo dato dall’esempio dell’URSS e la crisi del modello liberista (1929) che hanno precipitato il mondo verso la Seconda guerra mondiale.
In generale l’intreccio tra il liberalismo e l’antifascismo è figlio soltanto della Seconda guerra mondiale ed è la base delle costituzioni antifasciste; l’innesto dell’idea della “democrazia sociale” in Occidente nasce dall’incontro tra ideologie liberali e socialiste in un processo appoggiato dall’URSS di Stalin ma ostacolato dalla Guerra Fredda (1945-1991): le democrazie liberali, infatti, continuando ad essere Paesi imperialisti hanno favorito l’avvento di dittature in chiave anticomunista in ogni parte del mondo e mantenuto il “fattore K” (ostracizzazione verso i comunisti al governo) in Europa occidentale. La Germania occidentale non ha esitato a recuperare i nazisti in ottica anticomunista mentre in Francia, già nel 1958, Charles De Gaulle è giunto a smantellare la Costituzione antifascista, abolendo il sistema elettorale proporzionale e ripristinando un sistema elettorale uninominale che consente oggi ad un candidato che ha ottenuto poco più di un quarto dei voti validi al primo turno di accaparrarsi oltre il 70% dei seggi parlamentari. Storicamente i liberali si sono insomma trovati molto più a proprio agio a fianco dei fascisti piuttosto che dei comunisti. Tra le tendenze più recenti (dagli anni ‘80 ad oggi) si può notare il ritorno della coincidenza tra liberalismo e liberismo, con il conseguente abbandono del paradigma della democrazia sociale; a livello elettorale si privilegia sempre più il ritorno a sistemi elettorali maggioritari con soglie di sbarramento, alla democrazia indiretta e alla restrizione del suffragio (si pensi al caso dell’UE). In assenza di un forte movimento comunista e del blocco sovietico a fare da pungolo per lo sviluppo dei diritti sociali, insomma, le democrazie liberali stanno regredendo al loro livello ottocentesco. La retorica democratica con cui si pretende di giudicare il resto del mondo, mai stata credibile nel corso del ‘900, diventa sempre più un insulto all’intelligenza umana.
9.3. L’INGANNO DELLE GUERRE UMANITARIE
«Uno stato di guerra costante è il clima naturale della dittatura totalitaria» (Sigmund Neumann)[2]Leggiamo ora questo articolo di Danilo Zolo del 2011[3] che tracciava all’epoca un bilancio delle guerre umanitarie più recenti:
«A differenza degli animali, l’homo sapiens fa strage continua dei suoi simili e mostra di non saperlo o di non volerlo sapere. Egli sembra ignorare, per esempio, che fra l’inizio dell’Ottocento e la prima metà del Novecento oltre 150 milioni di uomini e di donne sono morti in guerre e in altri feroci conflitti, in gran parte nell’area europea. E le stragi sono continuate e continuano tuttora nonostante la garanzia formale del diritto e delle istituzioni internazionali. Dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, appena spenti i bagliori delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, la Carta delle Nazioni Unite aveva definito la guerra come un “flagello” (scourge) che la comunità internazionale era impegnata a cancellare per sempre dalla storia umana. La realtà è stata molto diversa […]. Se si adotta un approccio minimamente realistico, le motivazioni effettive delle “guerre globali” dell’ultimo ventennio possono essere agevolmente individuate. Accanto a interessi elementari come l’approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza dei traffici marittimi e aerei, la stabilità dei mercati, in particolare di quelli finanziari, emergono in primo piano le fonti energetiche delle quali il Medio-Oriente è ricchissimo: il petrolio e il gas naturale, anzitutto. E se si pensa alle guerre scatenate dagli Stati Uniti, non si può che riferirle a un progetto di occupazione neoimperialistica del Mediterraneo orientale, del Medio-Oriente e dell’Asia centrale secondo la logica del Broader Middle East. Una limpida conferma degli obiettivi reali delle “guerre globali” viene dalle motivazioni formalmente avanzate dalle potenze occidentali. Si tratta di motivazioni infondate e, spesso, del tutto illegali, come provano le dichiarazioni con le quali la NATO – di fatto gli Stati Uniti – ha giustificato la guerra del 1999 per la conquista del Kosovo. E si è trattato di una guerra finalizzata a risolvere una guerra civile all’interno di uno Stato. E questo tipo di intervento è notoriamente escluso dalla Carta delle Nazioni Unite. E altrettanto può dirsi della guerra contro la Libia che gli Stati Uniti hanno deciso […] in collaborazione con la Francia, l’Inghilterra e l’Italia. Si è trattato di una aggressione in perfetta sintonia con la guerra per il Kosovo, con le medesime motivazioni, con gli stessi obiettivi “umanitari”, con la stessa NATO, sempre pronta a bombardare senza limiti Paesi e città.Per quanto riguarda la guerra per il Kosovo c’è da dire che la formula humanitarian intervention, con cui è stata identificata dal Presidente Bill Clinton, esprime in realtà una volontà aggressiva e opportunistica, al di fuori di ogni rispetto del diritto internazionale e delle funzioni delle Nazioni Unite. La NATO ha fatto da copertura a una operazione di estremo interesse per gli Stati Uniti, che non a caso dall’alto del cielo hanno bombardato per 78 giorni la Serbia e il Montenegro, facendo strage di migliaia di persone innocenti. Un intervento armato per “ragioni umanitarie” ha comportato oltre diecimila missioni d’attacco da parte di circa mille aerei e l’uso di oltre 23 mila ordigni esplosivi, fra missili, bombe e proiettili all’uranio impoverito. Il risultato è ben noto: gli Stati Uniti hanno costruito nel cuore del Kosovo l’imponente base militare di Camp Bondsteel, che oggi ospita circa 7.000 soldati ed è quasi certamente dotata di armi nucleari. La guerra che gli Stati Uniti, assieme ai loro alleati europei, hanno scatenato contro la Libia è la prova della loro volontà di porre sotto il proprio controllo l’intera area mediterranea oltre che il Medio-Oriente e il Sud-Est asiatico. Gli Stati Uniti cercano di nascondere la loro vocazione neocoloniale e neoimperiale sotto il mantello dell’ennesima humanitarian intervention. È sufficiente una rapida lettura della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza del 17 marzo 2011, con la quale si è deciso il No-Fly Zone contro la Libia, per cogliervi una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite. La violazione della Carta è evidente se si tiene presente che il comma 7 dell’art. 2 stabilisce che “nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato”. È dunque indiscutibile che la “guerra civile” di competenza interna alla Libia non era un evento di cui poteva occuparsi il Consiglio di Sicurezza. Nulla è cambiato nella strategia egemonica degli Stati Uniti e questo avrà rilevanti conseguenze nei confronti del popolo libico che si finge di voler salvare dalle violenze di un dittatore […]. L’ideologia occidentale della humanitarian intervention coincide con una strategia generale di promozione degli “interessi vitali” dei Paesi occidentali. Un progetto di pacificazione del mondo richiederebbe una severa riflessione autocritica sulle radici dell’orrore che l’Occidente si è rivelato capace di produrre in un recente passato – dalle guerre coloniali ai Lager nazisti e l’Olocausto, a Hiroshima e Nagasaki – e si mostrano ancora oggi capaci di produrre. E occorrerebbe una cultura politica euroamericana orientata a un dialogo paritetico con le altre civiltà, a cominciare dal mondo arabo-islamico, in modo da fare del Mediterraneo un crocevia della pace».
9.4. LE RIVOLUZIONI COLORATE IN NOME DELLA LIBERTÀ
Nel 2007 Domenico Losurdo pubblicava un preziosissimo libro, La non-violenza. Una storia fuori dal mito[4], in cui dedicava i capitoli conclusivi alle “rivoluzioni colorate” avvenute ad esempio in Georgia nel 2003, quando l’allora premier Shevardnadze fu obbligato a dimettersi per lasciare il posto ad un governo più compiacente verso gli occidentali. Losurdo faceva notare come la tecnica usata fosse la stessa di quella con cui si cercò di incrinare il potere cinese nella rivolta di Tienanmen (1989)[5] e che nello stesso periodo ebbe successo nella caduta dei Paesi socialisti dell’est Europa. In molti hanno notato poi dei parallelismi sospetti con diverse altre “rivoluzioni” messe in atto negli anni Duemila in altri Paesi dell’area post-sovietica: Armenia, Kirghizistan, l’Ucraina (2004 e poi 2013)[6]. Di fatto tutti questi rivolgimenti politici sono caratterizzati da una medesima metodologia, chiamata per l’appunto “rivoluzione colorata”, su cui si sono studiate e precisate a fondo le caratteristiche: controllare l’informazione e una serie di ONG operanti dentro e fuori il territorio; utilizzare situazioni di malcontento per scatenare e guidare rivolte apparentemente non-violente (per le quali è più facile simpatizzare); utilizzare squadre specializzate, facendo leva se necessario sugli estremismi nazionalistici o religiosi; non limitarsi ad ottenere riforme e concessioni ma perseguire senza esitare la presa del potere.[7]
Tale casistica, lungi dall’essere causale o segreta, è stata scientemente teorizzata negli anni ‘80 dall’intellettuale Gene Sharp, ridefinito “il Clausewitz della guerra non-violenta”. Nel 1983 Sharp fonda l’Albert Einstein Institution (AEI) grazie al sostegno finanziario di una serie di istituti filo-governativi americani come NED, NDI, IRI, Freedom House e varie fondazioni riconducibili al miliardario George Soros[8]. Il risultato più importante del lavoro di questa associazione è stato la pubblicazione, avvenuta nel 1993, dell’opera Dalla dittatura alla democrazia (da cui anche il film di grande successo How to start a revolution del 2011): un manuale in 198 punti di lotta «realisticamente» non-violenta, che venne tradotto in decine di lingue (tra cui molte di quelle delle minoranze etniche in Cina) e che è disponibile gratuitamente anche online[9]. È significativo che nel corso degli anni diversi ricercatori dell’AEI siano stati avvistati sia a Tienanmen sia in alcune insurrezioni anti-russe. A questo punto dovrebbe essere chiaro come la strategia studiata da Sharp sia diventata di fatto il modus operandi preferito dagli USA per destabilizzare un Paese e porlo sulla propria orbita egemonica, attraverso un sistema che consente di rimanere nell’ombra senza dover far ricorso a rischiosi, sanguinosi e costosi conflitti militari, i quali vanno intrapresi solo come ultima ratio, qualora ci siano condizioni e necessità stringenti, e attraverso la strategia del Leading from behind, ossia del coinvolgimento ampio di Paesi attraverso alleanze facenti perno su NATO o ONU, al fine principale di limitare i danni d’immagine e mascherare l’aggressione imperialista.
Esagerazioni? Complottismo? No, è sufficiente analizzare alcuni documenti per attestare la credibilità di tali tesi. A partire dal Memorandum n. 40 del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli USA riunito da Kissinger nel 1970, che sanciva la strategia «di basso profilo» da adottare per destabilizzare il Cile socialista di Salvador Allende[10]. 5 punti che prevedevano la creazione del caos economico, l’autorizzazione ad azioni paramilitari, un’offensiva di propaganda, il finanziamento di settori dell’estrema destra, l’infiltrazione e divisione dall’interno della sinistra cilena. Uguali tattiche furono adottate negli anni precedenti e successivi dalla CIA (su preciso mandato presidenziale) contro decine di Paesi di tutto il mondo, come è stato mostrato ampiamente nell'opera In difesa del socialismo reale. Ancora nel 2004, in un cablo diplomatico del 9 novembre 2006 diffuso da Wikileaks, l’ambasciatore statunitense rivelava le direttive del “Piano di 5 punti contro il Governo Bolivariano”, che prevedevano tra le altre cose l’infiltrazione nella base politica chavista, la protezione degli affari vitali degli Stati Uniti e l’isolamento internazionale di Chavez. È recente infine la rivelazione di Raul Capote, nell’opera Un altro agente all’Avana. Le avventure di un infiltrato nella CIA, dei tentativi statunitensi di destabilizzare tuttora il governo cubano attraverso la creazione di gruppi di opposizione sociale e il controllo dell’informazione[11]. Le rivoluzioni colorate sono insomma nient’altro che lo strumento più raffinato di cui dispone oggi l’imperialismo per imporre il proprio dominio su Paesi sovrani refrattari ad accettare certe misure politiche o economiche. Tale casistica rientra nell’armamentario della cosiddetta “guerra psicologica” ma viene amplificata enormemente grazie al controllo mediatico pressoché totalitario e alla mancanza di un forte circuito di quella che una volta veniva definita “controinformazione”. Anche in questo caso ha pesato enormemente in Occidente la crisi del movimento comunista, pilastro della lotta antimperialista.
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