Era il 1909, un anno lontano, ma subito dopo, la gioventù della Cina fece la sua bella rivoluzione, con la parola d'ordine delle quattro libertà (solo in anni recenti noteremo che questa rivolta cui partecipò Mao giovinetto, era una rivolta di democrazia liberale...). Eravamo tutti studenti e giurammo che non c'era liberazione possibile per la Cina senza libertà delle donne; detestavamo la castità loro imposta; i piedi storpiati delle bambine destinate secondo la legge feudale ad apparire belle, perché immobili come voleva Confucio. Vendute come serve allo sposo, che su di loro aveva diritto di vita e di morte. Fu il primo tempo della mia lotta politica contro il feudalesimo...”.
Si interruppe, accese una sigaretta, una dopo l'altra in verità. “Per denunciare la servitù delle donne, arrivai a vestirmi da donna, per provocare il paese, e dissi che sarei rimasto con quegli abiti femminili finché le donne non fossero state liberate. Fu un grande scandalo. Ma attorno a me si misero tutti i giovani del paese. Hai visto, compagna italiana, quante donne camminano ancora con i piedi storpiati?”. “Sì”, risposi emozionata. Avevo guardato con orrore quelle donne che camminavano sui moncherini, saltellanti come uccelli storpiati, ed era l'immagine più ripugnante che avessi colto di quel passato. Poi, lungo le sponde dell'Huang Po, a Shanghai, mi avevano portato a vedere i cadaverini abbandonati dalle madri delle figlie femmine che, a notte, andavano a buttarli lì, sull'argine del fiume, perché la più grande delle sciagure era mettere al mondo una femmina. A Shanghai c'erano 800 bordelli e a Pechino 350. “Ho interrogato le donne, ho parlato con loro”, dissi a Mao che mi guardava attento, “e quei racconti li trascriverò sul giornale...”. Il saggio re guerriero sembrava contento di quella mia promessa, e sentiva anche la pena che mi animava. Capii che questa faccenda dell'oppressione delle cinesi era stata per lui come la sua pubertà politica. Altro che marxismo-leninismo, che allora non esisteva, e comunque era lontano da quella generazione. Allora iniziava lo sviluppo delle idee di libertà, dei diritti umani, destinate a fare dei giovani cinesi i primi ribelli del feudalesimo alla testa di una jacquerie sterminata.
Mao come tale era nato, come un intellettuale, contadino ribelle, né comunista né teorico del marxismo, ma un generoso giovane che voleva portare la civiltà nel suo mondo arcaico, anche per amore della madre, che aveva visto piangere tante volte. Gli chiesi se la Lunga marcia, a suo avviso, era stato il vero “Manifesto” per liberare le donne. Mi disse che certo, c'era stato il grande Manifesto di Marx ed Engels, c'erano stati i manifesti della rivoluzione bolscevica, però vi era stato un solo Manifesto, quello cinese, per le donne, onde sottrarle alle quattro schiavitù. “Durante la lunga marcia, diecimila chilometri - guarda lontano, socchiude gli occhi come se il sole riverberasse ancora dagli alti spicchi - avevamo fatto 150 mila prigionieri. La metà erano donne. Le tenevamo qualche giorno e poi le mandavamo via. Ma quelle ritornavano indietro di nascosto. Per la prima volta parlavano delle loro sciagure. Facevano dei racconti sulla loro vita e sulle miserie, esternandosi con le altre. Noi insegnavamo loro il diritto all'amore, il diritto al divorzio, il diritto all'eguaglianza con il marito. E loro ci sono state dietro, ci hanno seguito in molte fino a Yenan. Hanno combattuto con noi, partecipato alle imboscate, sono cadute al nostro fianco. Hanno affrontato talora il martirio, con eroismo...”. Il suo volto si oscura. Non ha mai alzato la voce e ora sì, come un grido soffocato. Pensa “al suo fiero pioppo”, la donna della sua poesia, la seconda moglie che amò d'amore vero, che fu presa in ostaggio dal Kuomintang e decapitata da Chiang Kai shek. La terza era un'eroina. Quattordici ferite durante la lunga marcia. L'ho vista in una foto a Canton: una donna alta, col fucile puntato, le chiome sciolte, che sembrava Ingrid Bergman. Attorno a noi i brindisi si levavano “Mao Tsè Wanzè”. Volgendosi verso di me, con un filo di curiosità, per quello strano mondo lontano che forse incarnavo, anche nei colori. Bianca, bionda, occhi azzurri. Mi interrogò in modo diretto: “Che cosa ha legato voi donne ai comunisti italiani?”. “La lotta contro il fascismo”, risposi. “Certo, è molto importante”, sorrise da misteriose lontananze il mio ironico Buddha, guardando quel soldatino dell'emancipazione femminile che stava lì. “E bene, ma c'è anche tutto il resto”, concluse. Avevo capito bene? Non bastava la lotta, non bastava il comunismo? E se il “resto” fosse stato il tutto? La felicità personale, l'amore, la dignità, il ruolo alto nel guidare le società? Il dubbio, a distanza di tanti anni, non mi ha mai lasciato. Come un avvertimento, un monito. “Affrettatevi lentamente”, ricordo la frase di Mao. Tra verbo e avverbio c'è una pausa, quella del pensiero. Si levò, mi sovrastava forte come un albero, e tese verso di me le sue mani piccole e bianche, che avevano le palme rosse, come sbollentate. Mi congedò con un bel saluto filosofico: “Scrivi sul tuo giornale che Mao saluta le donne per la lotta antifascista, e che augura loro... duemila anni di felicità”. Con questo vaticinio allegro, duemila anni di felicità, intitolai poi un mio libro autobiografico. Ma subito si accese la disputa dei sinologhi, dei parrucconi antimaoisti universitari. Secondo loro, sbagliavo. Mao non poteva aver detto duemila, perché la felicità si conta solo per diecimila anni in cinese. Invece, quanto a me, continuo a congetturare che avesse voluto offrirmi un filo lieve del tempo che si intreccia tra la civiltà femminile cui appartengo, i duemila anni del cristianesimo, e l'augurio di felicità che sta sempre sospeso sul divenire del nostro mondo».