5.4. LA PEDAGOGIA RIVOLUZIONARIA DI MAKARENKO
Come hanno affrontato i sovietici il tema del nesso tra alienazione e pedagogia? Con Cristina Carpinelli ricordiamo L’attualità dell’insegnamento di Anton Semenovič Makarenko65:
«Nei primi decenni del Novecento, il pedagogista sovietico Makarenko si accingeva a realizzare nella Repubblica dei Soviet un grande progetto educativo: la formazione dell’homo novus necessario alla costruzione del socialismo. Un progetto che, alla luce dei cambiamenti intercorsi nell’ultimo ventennio del secolo scorso in tutti i paesi dell’Est europeo, sembrerebbe sconfitto. Ci sono, tuttavia, più che validi motivi per “riabilitare” il pensiero pedagogico di Makarenko, dato che la scommessa di un’educazione intesa come strumento di cambiamento e progresso civile costituisce ancora oggi, agli inizi del terzo millennio, una meta importante per la pratica formativa delle nuove generazioni; soprattutto in un contesto, quello globalizzato, che le vede sempre più atomizzate e frammentate anche in quei luoghi istituzionalmente deputati alla loro crescita sociale e culturale. Attraverso le opere di Makarenko, a cominciare dal Poema Pedagogico (l’opera più tradotta e studiata), possiamo scoprire un metodo originale di emancipazione e riscatto della gioventù, che liberato del peso dei suoi eccessi ideologici e camerateschi può trovare rispondenza nel mondo attuale. Nel passato recente, il paradigma didattico makarenkiano è stato valido punto di riferimento per Don Bosco, per la Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani e per le straordinarie esperienze di Paulo Freire in alcuni paesi dell’America latina. Makarenko s’immerge negli abissi umani e psicologici di una comunità di piccoli ex-delinquenti, con lo scopo di restituire loro la vita, concepita sostanzialmente quest’ultima come “esistenza in comune”. E proprio da quest’idea si deve partire per cogliere l’essenza stessa del suo insegnamento, così come si ricava dai suoi lavori, nei quali fa costantemente eco il pensiero di un’altra grande personalità del tempo, Maksim Gor’kij, che si può condensare nella massima “un uomo solo, per quanto grande, è pur sempre solo”. Nell’epoca della globalizzazione, il futuro delle nuove generazioni è costruito con modelli educativi che sono antitetici al paradigma formativo proposto dal grande rivoluzionario e pedagogo Anton Makarenko, e che sono sostanzialmente il prodotto del pensiero debole. Occorre, dunque, riprendere in mano i lavori del maestro ucraino, studiarli di nuovo, dando loro un taglio sincronico, per individuare in essi quelle linee e quei concetti che possono essere adattabili e che sono fattibili per trovare soluzioni al grande problema dell’abbandono e della povertà infantile nel mondo.
«Nei primi decenni del Novecento, il pedagogista sovietico Makarenko si accingeva a realizzare nella Repubblica dei Soviet un grande progetto educativo: la formazione dell’homo novus necessario alla costruzione del socialismo. Un progetto che, alla luce dei cambiamenti intercorsi nell’ultimo ventennio del secolo scorso in tutti i paesi dell’Est europeo, sembrerebbe sconfitto. Ci sono, tuttavia, più che validi motivi per “riabilitare” il pensiero pedagogico di Makarenko, dato che la scommessa di un’educazione intesa come strumento di cambiamento e progresso civile costituisce ancora oggi, agli inizi del terzo millennio, una meta importante per la pratica formativa delle nuove generazioni; soprattutto in un contesto, quello globalizzato, che le vede sempre più atomizzate e frammentate anche in quei luoghi istituzionalmente deputati alla loro crescita sociale e culturale. Attraverso le opere di Makarenko, a cominciare dal Poema Pedagogico (l’opera più tradotta e studiata), possiamo scoprire un metodo originale di emancipazione e riscatto della gioventù, che liberato del peso dei suoi eccessi ideologici e camerateschi può trovare rispondenza nel mondo attuale. Nel passato recente, il paradigma didattico makarenkiano è stato valido punto di riferimento per Don Bosco, per la Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani e per le straordinarie esperienze di Paulo Freire in alcuni paesi dell’America latina. Makarenko s’immerge negli abissi umani e psicologici di una comunità di piccoli ex-delinquenti, con lo scopo di restituire loro la vita, concepita sostanzialmente quest’ultima come “esistenza in comune”. E proprio da quest’idea si deve partire per cogliere l’essenza stessa del suo insegnamento, così come si ricava dai suoi lavori, nei quali fa costantemente eco il pensiero di un’altra grande personalità del tempo, Maksim Gor’kij, che si può condensare nella massima “un uomo solo, per quanto grande, è pur sempre solo”. Nell’epoca della globalizzazione, il futuro delle nuove generazioni è costruito con modelli educativi che sono antitetici al paradigma formativo proposto dal grande rivoluzionario e pedagogo Anton Makarenko, e che sono sostanzialmente il prodotto del pensiero debole. Occorre, dunque, riprendere in mano i lavori del maestro ucraino, studiarli di nuovo, dando loro un taglio sincronico, per individuare in essi quelle linee e quei concetti che possono essere adattabili e che sono fattibili per trovare soluzioni al grande problema dell’abbandono e della povertà infantile nel mondo.
I ragazzi delle colonie di Makarenko partono da condizioni disagiate, e le loro storie sono la prova concreta che il compito educativo e formativo può essere positivamente svolto, pur nelle difficoltà degli svantaggi di partenza, a condizione però che si sappia reinventare le affermazioni più efficaci del pedagogo: l’amore per la vita e per l’uomo, l’ottimismo nella costruzione del futuro, l’“avanzare il più possibile richieste all’uomo e il più possibile avere rispetto per lui”. I personaggi del Poema Pedagogico, figure realisticamente vissute, sono l’esempio della costruzione di forti personalità giovanili, fiduciose, ottimiste, aperte alle prospettive del cambiamento, attente a riconoscere nel loro educatore un’alta capacità progettuale e attiva di elevata tensione morale. Questo riconoscimento è importante per l’accettazione e la preservazione da parte dell’educando di principi quali la pratica del lavoro mentale e manuale, la maturazione della solidarietà e della socialità. Il modello educativo di Makarenko è ambizioso. Esso tende alla trasformazione del soggetto verso ideali capaci di realizzare quella che il grande pedagogista polacco di orientamento marxista Bogdan Suchodolski definiva “umana felicità”, e che si basa sullo sforzo individuale e sociale, sul lavoro produttivo, sulla responsabilità personale e collettiva, indispensabili per concorrere alla realizzazione di qualcosa di nuovo e grande: la creazione di una società che sia, appunto, alla ricerca di una umana felicità. Un’idea, per il maestro Makarenko, realizzabile con il convincimento che la vita singola acquista valore e completezza se l’uomo partecipa all’edificazione di una valida vita sociale, e che quest’ultima, a sua volta, prospera e si fortifica solo se riesce a compenetrarsi con l’agire individuale.
Da tutte queste premesse, Makarenko costruisce le sue colonie ponendo al centro il lavoro organizzato e associato. Intanto perché esso risponde al nuovo programma politico del governo di Mosca e dall’altro perché contiene quegli elementi di solidarietà e di coesione sociale necessari per affrontare la drammatica situazione seguita alla guerra civile. Quando, sul finire del 1921, il giovane potere sovietico decise di espandere scuola e formazione a tutti i ragazzi di quell’immenso territorio conquistando a quella causa - insieme a Makarenko - migliaia di insegnati e giovani docenti che uscivano dalle scuole di pedagogia, si calcolavano in 8 milioni i besprizornye (“bambini e ragazzi senza tutela”) vaganti nelle strade e senza tetto. Essi giravano in bande sopravvivendo come potevano, commettendo anche crimini. L’esperienza delle colonie e delle comuni per ragazzi in stato di abbandono proseguirà anche nel lavoro successivo di edificazione del socialismo, sia nella fase della Nep sia in quella del primo periodo della pianificazione e del primo piano quinquennale (pjatiletka). Quella stagione sarebbe presto finita, come gli studiosi sanno, ma le opere che Makarenko ha ricavato da quella straordinaria esperienza restano per sempre una mirabile testimonianza umana, sociale e politica. Il Poema pedagogico non è, infatti, solo il romanzo per eccellenza dei besprizornye nella Russia sovietica degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ma rappresenta universalmente il “poema” dell’illimitata fiducia nell’educabilità umana, della responsabilità personale, della formazione e della vita del collettivo, attraverso il contributo di ogni singolo individuo, della fertilità del nesso studio-lavoro, dell’“uomo nuovo” e delle “prospettive”. L’ottimismo makarenkiano si traduce nella fede che possiede colui che vuole modificare la realtà e lottare per un futuro migliore. Gli uomini devono però porsi delle prospettive. L’educazione alle prospettive avviene con l’applicazione del principio già enunciato: “avanzare il più possibile richieste all’uomo e il più possibile avere rispetto per lui”. Le richieste sono un segno di fiducia verso i ragazzi, che si liberano nell’attività pratica e mentale delle loro precedenti condizioni d’inferiorità e subalternità, dandosi delle nuove prospettive da raggiungere, assaporando la gioia della conquista. Un sistema che è risultato potentemente efficace nei collettivi diretti da Makarenko, e che non esclude la famiglia dell’educando. Attraverso l’applicazione, in ambito familiare, del sistema delle “linee prospettiche”, il maestro sprona i genitori a guardare e traguardare la prospettiva sociale, lo scopo sociale: “Non state educando i figli soltanto per la vostra gioia di genitori (…) su di loro ricade la responsabilità morale dello sviluppo del futuro cittadino. (…) La vostra attività nella società e nel lavoro deve riflettersi anche nella famiglia; la vostra famiglia deve mostrare il proprio volto politico e civile, e non separarlo dal volto di genitore”.
Makarenko inserisce la famiglia in un ambito favorevole all’edificazione di una società socialista. La sua è una didattica dell’“azione parallela”: famiglia, collettivo, educatori ed educando devono positivamente interagire. Inoltre, nella concezione del maestro, la gioia di vivere deve essere priva della smisurata ambizione ai beni materiali. Egli insiste molto sui rinforzi non materiali da offrire ai figli. I sistemi basati sul feticismo delle merci e sull’alienazione avvelenano la coscienza dei giovani. Bisogna formare dei produttori e non plasmare dei consumatori. L’eredità che ci ha lasciato Makarenko è l’idea della lotta dell’uomo contro gli errori e i pregiudizi, della possibilità che egli ha di creare da sé il futuro, per mezzo del collettivo e del lavoro produttivo. Un’idea che rende Makarenko il più autorevole rappresentante di quella che può essere definita una “pedagogia della praxis”. Il lavoro produttivo è la componente essenziale della sua concezione pedagogica rivolta al recupero dei ragazzi difficili, finalizzata alla formazione dell’uomo nuovo per contribuire alla costruzione della società socialista e per essere partecipe e protagonista dello slancio e del processo rivoluzionari. Nel progetto di Anton Semenovic Makarenko e nell’esperienza delle colonie e delle comuni, il lavoro non è fine a se stesso, strumento per impiegare e fare trascorrere il tempo, espediente per tenere occupati i ragazzi distogliendoli dall’ozio, ma assume i caratteri di una vera e propria attività produttiva. Il lavoro è il mezzo per creare beni materiali e, quindi, ricchezza, nel senso socialista del termine. Ecco, dunque, il progetto per la coltivazione di terreni agricoli o per costruire macchine fotografiche e altri beni materiali, attuato dai ragazzi anche con l’aiuto di collaboratori esperti. Nasce una contabilità dettagliata dei costi di produzione per ciascun prodotto finito, confrontata con quella di aziende similari per essere competitivi, accanto ai prezzi praticati nella vendita alle società commerciali. Si crea un circuito virtuoso di emulazione nell’organizzazione del lavoro e nella produttività, secondo l’espressione moderna, che vede entusiasti e protagonisti responsabili i ragazzi delle colonie, sotto la vigile guida del direttore delle strutture, ovvero dello stesso Makarenko. Alcuni di questi giovani passeranno alla rabfak (facoltà operaia), costituendo il primo nucleo di una schiera di migliaia di ex delinquenti e vagabondi che diventeranno intellettuali, insegnanti, soldati e medici. Quasi tutti gli educandi si salveranno e si svilupperanno come lavoratori e cittadini.
Il Poema Pedagogico non è, tuttavia, solo una “grande narrazione” dell’educazione nella sua versione estrema. In qualche modo travalica il campo di azione proprio di chi si occupa in particolare delle persone più escluse e più deboli. E investe tutto il mondo educativo. Certo l’esperienza di Makarenko - così come ogni esperienza educativa “di frontiera” - avviene entro uno specifico contesto pedagogico, che non consente facili soluzioni e rassicurazioni date da assetti ripetitivi, standardizzati. Bisogna ogni volta provare che le cose funzionino. E non in astratto, ma nel migliore modo possibile ed entro le “condizioni date”. Non c’è modo di pensare ad un metodo alternativo, semplicemente perché le circostanze non lo consentono. Chi opera deve costantemente ricercare, sperimentare. Afferma Makarenko: “La formazione del tipo di comportamento necessario è soprattutto una questione di esperienza, di abitudine e di lungo esercizio in ciò di cui abbiamo bisogno”. Questo è un tema pedagogico che ha avuto una risposta decisiva, di grande empirismo. È un tema deweyano, perché ha esplicitamente a che fare con dei compiti, con delle azioni… Alla fine del Poema pedagogico, Makarenko confesserà al professor Cajkin: “Io proprio non vi capisco, secondo voi, per esempio, l’iniziativa è una specie di ispirazione... Ma io cerco di farvi capire che l’iniziativa si manifesta solo in presenza di un compito da svolgere, di una responsabilità inerente al suo svolgimento”.
La Rivoluzione d’Ottobre aprirà orizzonti nuovi del tutto sconosciuti, offrendo straordinarie possibilità alla teoria e alla prassi pedagogica, così come ammetterà lo stesso Makarenko: “Dopo l’Ottobre, si aprirono di fronte a me meravigliose prospettive. Noi pedagoghi eravamo allora talmente inebriati da queste prospettive, da essere quasi fuori di noi”. Contrario al progetto educativo descritto nell’Emilio di Jean-Jacques Rousseau e, quindi, all’educazione libera e spontanea sostenuta da alcuni pensatori e pedagoghi impegnati all’indomani della rivoluzione nelle iniziative d’istruzione popolare e di educazione rivoluzionaria, Makarenko ritiene che la mancanza di una prospettiva e di uno scopo sociale nel programma educativo, sebbene dialogico e flessibile, porti solo alla ricerca individuale, all’assenza di spirito collettivo e alla perdita del senso di fratellanza e solidarietà umana. Per questo motivo l’educazione è il processo di socializzazione dell’uomo, che deve avere luogo dentro il “collettivo”. La ricerca spontanea dell’educando si fa ricerca razionale della propria autonomia e libertà solo se acquisita gradualmente nel contatto sociale, nello scontro/incontro dialettico di posizioni e idealità anche diverse. Il cammino e le modalità d’apprendimento possono trovare concretezza nell’accorto equilibrio tra ciò che la società esige e ciò che l’individuo può dare. Il puerocentrismo e la pedagogia del “laissez faire”, assurti a mito, creano percorsi educativi senza obiettivi sicuri e senza precisi traguardi.
Questo è un punto cardine del pensiero makarenkiano. Il ragazzo deve comprendere e accettare il superamento delle posizioni individualistiche (“non è un male l’abbandono di piccoli privilegi e il sacrificio di fare cose diverse da quelle che si vorrebbero, in caso di bisogno”) e, contemporaneamente, l’educatore deve infondergli massima stima e fiducia nelle sue forze e possibilità. Il ragazzo va, inoltre, educato verso obiettivi che puntino alla costruzione di un mondo, dove gli uomini siano in grado di stabilire un rapporto armonico tra la realtà della natura e quella umana. Questo ideale di società può avverarsi anche su questa terra, a patto che si alimenti nelle nuove generazioni l’ottimismo nella costruzione del futuro. Questo ottimismo, che può e deve basarsi sui lati positivi dell’uomo, sulla sua intelligenza, creatività e sulla sua socialità come punti di partenza, non è tuttavia senza condizioni. Rousseau fa vivere Emilio isolato nella natura perché non si corrompa e mantenga genuinamente intatta la sua purezza originaria. Per Makarenko non vi è, al contrario, spazio per l’idealizzazione di un beato stato di natura. Nessuna concessione, più o meno paternalistica, al mito del “buon selvaggio”. Al contrario, una dura, realistica presa d’atto della situazione oggettiva, concreta, ma non con l’intento di mettere in pratica “tout court” la nota frase hegeliana: “il criminale ha diritto alla sua pena”. Occorre scavare più a fondo, recuperare l’identità perduta o mal riuscita. L’identità non è un dato fisso. E neppure un dono gratuito. L’identità è un crocevia. Makarenko scopre la socialità dell’individuale. Molti individui vengono a morte prima di aver vissuto. Muoiono già distrutti in vita. Perché? Perché l’uomo è sì natura, ma anche storia. Non si dà problema dell’individuo che si esaurisca nei suoi termini individuali. Senza esserne un passivo o scontato epifenomeno, l’individuo chiama in causa il sociale. I suoi problemi possono essere segnali di un disagio più grande.
Makarenko crede che l’uomo debba pienamente immergersi nella vita, essere stimolato perché possa “trasformarsi” (“educare significa vincere tutto ciò che è meschino, volgare e animalesco nell’uomo e innalzarlo a quanto è veramente umano”) e, quindi, gettare le basi per la “trasformazione”, a sua volta, della società nel suo insieme. Il maestro non si stancherà mai d’interrogarsi su questo tema. Si dirà: “cercare tesori e trovare lombrichi”. Ma i lombrichi possono essere tesori. Riciclano. Fertilizzano. Ridanno vita a terreni esausti. I lombrichi “trasfigurano”. Bisogna, quindi, indirizzare la gioventù verso il bene comune che solo può dare significato alla vita, e che è raggiungibile con l’eliminazione dello sfruttamento, dell’egoismo e dell’avidità, con la pratica costante dentro il collettivo di valori e principi come il coraggio, l’altruismo, l’onestà, la disciplina e la libertà. Questi due ultimi termini sono, per il pedagogo sovietico, “opposti dialetticamente uniti, di cui l’uno non può sussistere senza l’altro”. La libertà sostanziale e non formale non è assenza di legami, è una categoria sociale, una parte del vantaggio comune, la risultante di un comportamento sociale. Mentre la disciplina esercitata come strumento di coercizione non può sfociare in autodisciplina cosciente. Il rischio è di ricadere nell’autoritarismo feudale patriarcale, di cui il socialismo auspica la definitiva cancellazione. Bisogna, invece, “rispettare la personalità del fanciullo e nel contempo non fargli mancare la necessaria guida”. Certo, Makarenko si deve misurare con la vena libertaria profondamente radicata in particolare nel mondo contadino russo e nell’idealizzazione del suo valore intrinsecamente comunitario. Durante gli anni della sua prima formazione da pedagogista, egli s’imbatterà, innanzi tutto, nell’esperienza della scuola di Jasnaja Poljana fondata da Lev Tolstoj. Indirizzata prevalentemente ai figli dei contadini, tale scuola s’ispira all’Émile ou de l’éducation di Rousseau, vale a dire all’utopia di una formazione di matrice libertaria, in cui l’insegnamento è svolto senza modalità autoritarie e repressive. Tra il 1904 e il 1908 Makarenko parteciperà sia al dibattito della neonata associazione degli insegnanti che s’ispirano al socialismo sia a quello di coloro che ruotano attorno alla rivista Libera educazione, d’impostazione tolstojana. E ciò che ogni volta lo colpisce come futuro educatore è il tema del conflitto tra tenuta della regola e rispetto della libertà di ogni ragazzo.
Così, benché sia contrario a “perseguitare i ragazzi per ogni sciocchezza” in nome dell’educazione, tuttavia, Makarenko non approderà alla tradizione tolstojana sull’educazione spontanea, che pure avrà un certo seguito anche dopo la rivoluzione. Nel Poema, infatti, egli critica aspramente questa tradizione: “eravamo continuamente tormentati dalle prediche sull’educazione libera…”. Makarenko individuerà una posizione intermedia: “Non lo sapevo ancora, ma avevo un lontano presentimento, che né la disciplina del singolo né la completa libertà del singolo fossero la nostra musica”. È interessante notare quanto il suo Poema sia costantemente attraversato dal tema “regolazione/libertà”, dove la regolazione, insieme con l’apprendimento, è ricondotta non già alla regola presa in astratto bensì al “collettivo”, che si con figura come luogo di relazioni e regolatore, come contesto sociale di apprendimento. Afferma Makarenko: “Siccome noi lavoriamo comunque nel mezzo di relazioni e considerato che proprio la relazione si presenta come l’oggetto reale della nostra attività pedagogica, noi abbiamo, davvero, sempre davanti a noi un duplice soggetto, la persona e la società”.
L'esperienza makarenkiana, pur nel mutato contesto storico, può costituire ancora oggi un punto di riferimento per quelle iniziative pedagogiche indirizzate al recupero di ragazzi difficili, che assumono positivamente l’esempio delle colonie Gor’kij e Kurjaz raccontate nel Poema pedagogico e della comune Dzeržinskij descritta in La marcia dell’anno ’30 e nel successivo romanzo Bandiere sulle torri. Certo, oggi pesa un pregiudizio di tipo politico, frutto di un non approfondito e compiuto studio del pensiero makarenkiano: metodi coercitivi e autoritari, indottrinamento ideologico, abbandono della pedagogia del singolo a favore del gruppo e del collettivo, sono i principali elementi di disorientamento e di rifiuto. Licenziato da molti spregevolmente come opera del realismo socialista, il Poema spicca, invece, proprio per la sua coralità dove ognuno, meglio, ogni singola personalità, contribuisce alla vita del proprio collettivo. Esiste una reciprocità tra “collettivo” e “singolo” che espunge o perlomeno “smussa” l’imponenza immanente del tutto sull’uno. È giusto, quindi, definire il Poema un’opera totale, ma non totalitaria nel senso ideologico del termine, come sovente è presentato anche dalla critica più recente. Quest’opera - “formazione in progress”, come acutamente aveva sostenuto a suo tempo Gyorgy Lukács - è, sicuramente, la narrazione dell’“accumulazione originaria” della pedagogia socialista (realizzatasi pionieristicamente in quel luogo e in quel tempo della storia), e anche la sua traduzione (qualunque essa sia) non può non risentirne. Ma nei lavori del pedagogo, a cominciare appunto dal Poema, non vi è la pura e semplice enunciazione di una dottrina, non si danno unicamente i secchi paragrafi di un “insegnamento a una via”, dall’alto verso il basso. In esse vi è una traccia importante delle attese, delle speranze e degli slanci che la grande stagione rivoluzionaria aveva aperto.
La risposta del pedagogo Makarenko all’emergenza dei besprizornye è coraggiosa, ricca di emotività e d’improvvisazione; si avverte lo slancio rivoluzionario, l’ottimismo, la fiducia nella possibilità di educare ragazzi vagabondi, sbandati, orfani e delinquenti minorili alla “vita nuova”, attraverso la forza del “collettivo”. Eppure, questa risposta è condotta con lucidità e chiarezza. Makarenko è antiburocratico, pur imponendo la regola (insieme con la disciplina e l’ordine). Tuttavia, la regola non è osservata in astratto, ma accettata e rispettata attraverso l’autorevolezza e il prestigio che il maestro Makarenko conquista giorno dopo giorno sul campo insieme con i suoi besprizornye. Anche se nei suoi romanzi dà l’impressione d’inventare, creare una storia, i suoi sono personaggi in “carne ed ossa”, come reali risultano le circostanze e i luoghi. Reale è il lavoro, la sua organizzazione, i laboratori, i reparti, i reparti misti, il “consiglio dei comandanti” (in definitiva il collettivo della “colonia Gor’kij”), come vere sono le esperienze.
Solo a voler guardare il nostro mondo così come esso è, è del tutto evidente che la materia viva, il primo contenuto del Poema pedagogico, ci riguarda ancora da vicino: il che fare, il come poter concretamente affrontare la questione dei ragazzi più esclusi dalle opportunità della vita. Che siano ragazzi privi di dimora e senza la guida degli adulti, ragazzi precocemente avviati al lavoro, senza istruzione né formazione o, infine, ragazzi che lungo la loro strada hanno incontrato tanta sfortuna da avere imboccato strade crudeli. Secondo le stime delle Nazioni Unite, attualmente i bambini profughi nel mondo sono circa 50 milioni. Alcuni di questi sono in fuga dai conflitti armati, in tutto simili a quei besprizornye che raggiunsero la colonia Gor’kij in seguito alle vicende della guerra civile in Russia negli anni Venti del secolo scorso. In aggiunta a questi ve ne sono un altro numero imprecisato ma grande - ben oltre 100 milioni - che, in ogni continente, fuggono la fame e le mille vessazioni della miseria. Per le più diverse ragioni e in modi differenti, vivono vagabondando, in condizioni di mancanza di sostegno e guida adulta, dall’Atlantico agli Urali. Proprio come viene spiegato nel Poema pedagogico, con una maestria, un rigore e soprattutto un insuperato rispetto per gli accadimenti della vita che colpiscono i più deboli, questi milioni di ragazzi, ovunque si trovino, pur confusi, oppressi e portatori di sofferenze, cercano una nuova vita, una possibilità di riscatto. Oggi come allora. Hanno disperato bisogno di quelle cose di cui tanto ancora ci dice il Poema pedagogico. Hanno bisogno di educatori che sappiano essere effettivamente guide ma anche “costruttori di collettivi”. Ecco perché ha un senso attualizzare il pensiero makarenkiano. L’esperienza di Anton Semenovic Makarenko rientra, infatti, nel lavoro di costruzione di un mondo nuovo in cui furono coinvolti milioni di persone nello sforzo di trasformare la società, attraverso la formazione dell’uomo che si emancipa e si sviluppa nel collettivo, cellula primordiale di quel sistema di cooperative, concepite come associazioni di uomini produttori civili, e non di capitali, che avrebbero dovuto costituire la struttura portante della nuova società socialista.
Parlando in termini più moderni, lo sviluppo della personalità dell’individuo, la sua autorealizzazione è possibile solo nella misura in cui “la persona riesce a realizzare il senso che egli trova nel mondo esterno”. A questo tema, che riproduce quello delle prospettive makarenkiane, bisogna prestare particolare attenzione, e suggerisce quanto sia ancora vivo il Poema pedagogico nel suo costante riportare l’uomo al centro del processo pedagogico e mai sottometterlo ad esso. Che è quanto troppo spesso accade nel nostro mondo burocratizzato e disumanizzato. La novità del metodo pedagogico di Makarenko consiste nel ricreare dal basso la comunità dei ragazzi “in recupero”, riconsegnando loro il tempo, la sua scansione, il ritmo, lo stile del vivere quotidiano. Anton Makarenko è un educatore classico. Prende per mano l’educando, lo conduce “fuori di sé”, per farlo “tornare in sé” e fargli scoprire il Sé profondo, là dove l’identità si scopre correlativa, quasi gemella, per così dire, dell’alterità. Il maestro esercita solo una funzione di guida, mentre spetta al discente compiere quegli sforzi autonomi e consapevoli durante il suo processo di apprendimento; la bellezza e la forza dei ragazzi di Makarenko sta proprio nel prendere un compito sul serio. “Prendere sul serio”: dare pieno credito agli intendimenti e agli atti di chi cresce e cerca di “diventare grande”. Questo, in fondo, è il fulcro su cui dovrebbe poggiare anche oggi la funzione educativa. Ed è lo stesso sul quale si fonda tutto l’intreccio narrativo, pagina dopo pagina, del Poema pedagogico. Per questo la lettura di questo capolavoro letterario resta ancora un autentico dono per chiunque voglia imparare ad educare».
65. C. Carpinelli, L’attualità dell’insegnamento di Anton Semenovič Makarenko, Gramsci Oggi, n° 4-5, 2010, disponibile su www.gramscioggi.it.