4.10. LAZAR KAGANOVIC, BOLSCEVICO FINO ALLA FINE
Lazar' Moiseevič Kaganovič (Kabany, 22 novembre 1893 – Mosca, 25 luglio 1991) ha combattuto per la rivoluzione nel 1917, è stato un comandante delle armate bolsceviche nella guerra civile contro i bianchi, poi è salito fino al vertice del potere, diventando membro del Politbjuro, vicepresidente del consiglio dei ministri, e tra i principali collaboratori di Stalin. Un uomo energico, risoluto, istintivo, capace di affascinare e suscitare terrore. Uno che non si è mai pentito di ciò che ha fatto: dopo la morte di Stalin, ha tramato contro Chruščev e per questo è stato espulso prima dal Politbjuro, poi anche dal partito. Per tre decenni Lazar Moiseevič Kaganovičh è rimasto zitto, ai margini della politica, dimenticato. I suoi vecchi amici sono morti uno a uno. Per passare il tempo, si è messo a giocare a domino con i pensionati del suo caseggiato. Ha chiesto a lungo la riabilitazione, e il partito gliel'ha sempre negata. Quando, dopo un'operazione in ospedale, nel 1980, la figlia Maia è riuscita a ottenere dal Comitato Centrale che gli aumentassero un poco la pensione, lui ha commentato: «avrei preferito che mi restituissero la tesserina rossa del Pcus». Nel 1990, a 97 anni, questo ebreo figlio di un ciabattino ucraino ha rilasciato un'intervista82 in cui si è tolto qualche sassolino dalla scarpa. Ne riportiamo alcuni degli estratti più significativi:
«cosa sta accadendo nella nostra Unione Sovietica? Prima si rinnega Stalin, adesso, pian piano, si arriva a processare il socialismo, la rivoluzione d'Ottobre, e in men che non si dica vorranno processare anche Lenin e Marx. Se si vuole rimettere tutto in discussione, però, bisognerebbe affrontare la nostra storia globalmente, nell'ambito della storia del pensiero umano, della storia della lotta di classe, della storia delle rivoluzioni. Oggi invece tutto è mescolato, avvilito, argomenti borghesi e ragioni comuniste, discussioni schizofreniche in cui si parla soltanto a vanvera. […] A sedici anni, una volta, organizzai una riunione di giovani operai sul problema dell'alfabetizzazione e dell'istruzione scolastica. Avevo più cultura di loro, ero un giovanotto erudito. Ma mi capivano. Bisogna saper parlare ai giovani. E la gioventù d'oggi mi sembra a un livello molto più basso degli operai a cui parlavo io nel 1913. È una gioventù pronta a farsi trascinare da chiunque. Con loro si dovrebbe ricominciare dal principio, dall'a-b-c... […] Quando leggo le meschine interviste di certi ex-membri del Politbjuro, o certi libri di memorie... Raccontano la storia così: Io andai, lui venne, lui disse, io dissi... Ma cosa vuol dire? Che senso ha? Bisogna parlare di idee. Di idee! Di sostanza! Di contenuto! Invece di cosa parlano oggi i nostri cosiddetti movimenti pubblici? Ce ne sono almeno cinquanta, e alle varie elezioni non partecipano mai meno di quindici partiti. E tutti creano solo confusione nella mente dei giovani.
Io, se dovessi parlare, innanzi tutto distinguerei. Ai quadri vecchi bisogna rivolgersi in un modo, ai quadri medi in un altro, ai piccoli borghesi e ai filistei in un altro ancora... e al nemico, poi, ci si deve rivolgere in modo diverso, col nemico si parla come esso merita. E proprio da questo comincerei. Direi: attenzione, compagni, ci stanno attaccando! L'ideologia borghese è all'attacco, e bisogna riconoscere che in questo momento ha vinto molte battaglie. […] Io credo nella forza del nostro partito. Credo nella forza della nostra teoria, nella forza del leninismo. In fondo abbiamo passato anche momenti peggiori. Ma oggi mi preoccupa il dibattito ideologico. Dove si vuole arrivare con questi discorsi sulla rinascita delle tradizioni, della vecchia Russia, dello spirito di un tempo lontano? Qualche giorno fa, ho sentito parlare un vecchietto alla tivù. Ma che sciocchezze diceva! Assistiamo alla rinascita dell'autentica cultura russa... E gli si permette di fare chiacchiere simili? Ma quale rinascita? Dopo tutto quello che abbiamo fatto noi comunisti in settant'anni per la cultura russa! C'era un popolo di analfabeti. C'era una Russia completamente ignorante, analfabeta, arretrata, contadini che lavoravano i campi con l'aratro di legno. I poveri languivano, morivano come mosche. E oggi dovremmo festeggiare la rinascita di quella Russia? Lo so, qualcuno si lamenta che le nostre automobili, i nostri macchinari, non funzionano tanto bene: ma prima non c'erano neanche, non esistevano! Grazie a Dio oggi le abbiamo, anche se hanno dei difetti, delle imperfezioni. Come si fa a sostenere che va tutto male? […] Oggi dovremmo chiederci: davvero avremmo potuto combattere il fascismo, se fossimo rimasti un paese non industrializzato, non collettivizzato? Avrebbe potuto, il nostro arcaico villaggio agricolo, nutrire l'esercito e le città? Chi avrebbe il coraggio di rispondere sì a questa domanda? Dovremmo chiederci: perché morì lo zarismo? Perché non aveva niente con cui nutrire l'esercito. Non aveva abiti per vestirlo. Era un esercito nudo, scalzo, e affamato, quello dello zar, e non aveva niente da sparare. Noi, invece, nella lotta al nazismo, dopo le ritirate abbiamo cominciato ad aumentare, aumentare, aumentare la nostra potenza militare, e abbiamo mandato al fronte decine di migliaia di pezzi d'artiglieria. Quando assalimmo Berlino, fu un attacco mai visto per intensità e potenza. Da dove abbiamo preso tutti quei carri armati e aerei? Senza la politica di Stalin non saremmo arrivati mai a niente, saremmo morti tutti quanti. Cosa sarebbe stato dell'URSS, se non avessimo compiuto in dieci anni i progressi per i quali occorrono normalmente cinquanta o sessant'anni? Il fascismo non aspetta, non avrebbe aspettato. Il nostro paese sarebbe stato distrutto. E tutti questi merdosi patrioti di oggi non lo vogliono capire, come non lo capiscono più molti comunisti. Bisognava prendere la strada di Bucharin, dicono, la strada di Kondriatev... Ebbene, cosa sarebbe successo se avessimo seguito la loro strada? Saremmo stati schiacciati, io ne sono profondamente convinto. Saremmo stati schiacciati per cinquecento anni, sarebbe stato molto peggio del giogo tartaro. Ecco che fine avrebbe fatto la Russia. Abbiamo guadagnato due anni con il patto Ribbentrop-Molotov, due anni, dal '39 al '41, cruciali per lo sviluppo dell'industria, per il rafforzamento dei trasporti. Ma adesso è più facile incolpare Stalin […] la collettivizzazione fu il proseguimento di una linea leninista. Ci furono degli eccessi? Sì. Ma dove e quando non ci sono? Ci sono sempre. Quando combatti una guerra, è difficile stabilire in anticipo quante cartucce sparerai. Il nemico occupa una nostra città, dobbiamo riprenderla. Ma dentro la città c'è la nostra gente, degli innocenti che potrebbero essere uccisi nell'attacco. L'esercito griderà ugualmente: all'assalto, perché così deve essere, in tutti i tipi di guerra. Sì, il risultato è che soffrono anche gli innocenti. Ci furono vittime innocenti nella collettivizzazione delle terre. Ma c'erano anche i contadini ricchi, influenti, legati alla chiesa, che perturbavano, ostacolavano. Cosa si doveva fare? E nell'industria c'erano i sabotaggi. Oggi molti storici lo negano, ma era vero. Il sabotaggio c'era, e, dirò di più, c'è anche adesso. […] Gorbačev dice che gli interessi dell'umanità vengono prima degli interessi di classe. Cari miei, Marx e Lenin l'hanno interpretato bene il concetto di classe. L'unica classe interessata al progresso sociale, umano, è il proletariato. Perché non possiede niente, non ha niente, tranne le dieci dita delle sue mani di operaio. Perciò la sua lotta, lotta di una classe, è stata anche lotta di tutta l'umanità. La lotta di classe è la vera lotta per la democrazia. […] Non si deve mai cancellare la parola socialista. E oggi invece, tutti si chiamano impunemente socialisti, proprio tutti! Abbiamo i socialisti cristiani, l'unione democratica dei socialisti, i socialdemocratici, e così via. Ma quel che significa, sociale, socialista, lo sappiamo soltanto noi».
82. E. Franceschini, Parla Kaganovich, cit.