«La storia dei “relocation camps”, campi di prigionia dove i giapponesi americani vennero reclusi dal 1942 al 1945, è spesso messa in secondo piano quando si parla della seconda guerra mondiale, o è in generale un argomento poco conosciuto. Per comprendere come un paese come gli Stati Uniti che si è sempre posto come difensore dei principi della democrazia e della libertà sia arrivato a optare per l’allontanamento e l’incarcerazione di un intero gruppo etnico, è necessario risalire al clima storico dei primi decenni del Novecento e, in particolare, alla situazione della California. Per molti aspetti il movimento anti-giapponese fu una naturale continuazione del razzismo nei confronti degli immigrati cinesi, iniziato già nella seconda metà dell’Ottocento, che ebbe come centro la California e che portò, nel 1892, alla fine della migrazione cinese negli Stati Uniti attraverso il Chinese Exclusion Act. Le agitazioni anti-giapponesi iniziarono in questo clima di intolleranza nei confronti degli immigrati asiatici (nonostante gli sforzi della comunità giapponese per differenziarsi dai cinesi, meno integrati e più avvezzi al gioco d’azzardo e alla prostituzione, gli americani non distinguevano i due gruppi etnici). Il sentimento razzista nacque presso le associazioni dei lavorati e i sindacati che accusavano i giapponesi di rubare il lavoro agli americani, oltre che di essere inassimilabili nella comunità. Se inizialmente questa ideologia era circoscritta allo stato della California, a partire dalla metà degli anni Dieci del Novecento si diffuse su scala nazionale, processo velocizzato anche dalla diffusione di teorie sull’esistenza di una razza superiore, dal concetto di americanismo come negazione del diverso diffusosi dopo la Prima Guerra Mondiale, ma soprattutto dalla paura dell’ascesa del Giappone come potenza mondiale e dalle mire espansionistiche nel Pacifico dell’impero giapponese. In particolare, si diffuse il termine yellow peril, pericolo giallo, che indicava il pericolo di una possibile invasione della Costa Occidentale da parte dei “gialli”, i giapponesi. Né il Gentlemen’s Agreement (1907-1908) che limitò l’ingresso dei giapponesi nel paese, né l’Immigration Act del 1924 che pose fine alla migrazione giapponese negli Stati Uniti, placarono gli esclusionisti, che continuarono le loro campagne anti-giapponesi. Fu l’attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 che portò il Presidente Roosevelt a firmare nel febbraio del 1942 l’Executive Order 9066, l’ordine che autorizzò l’allontanamento dei giapponesi americani dalla Costa Occidentale per motivi di sicurezza, e la loro reclusione in campi di prigionia. In particolare, l’ordine autorizzava il segretario alla Guerra a prendere le misure che riteneva più appropriate per occuparsi della questione giapponese. La responsabilità venne affidata al Generale John L. DeWitt e al suo assistente Karl Bendetsen; i due designarono California, Oregon e Washington come Area Militare No. 1, dalla quale i giapponesi americani (sia aliens sia cittadini americani) dovevano essere evacuati. Verso la fine del marzo 1942 i primi avvisi di evacuazione fecero la loro apparizione nelle grandi città californiane; questi avvisi informavano i giapponesi che sarebbero stati portati con autobus o treni negli assembly centers, centri che avrebbero ospitato momentaneamente le famiglie in attesa di essere spostate nei veri e propri relocation centers, oltre a spiegare cosa portare con sé (di solito due valigie).
Vennero costruiti dieci campi di prigionia, alcuni dei quali sulla costa occidentale, altri in zone più interne e due sulla costa orientale; i siti selezionati erano terreni statali per lo più desertici e disabitati come ex riserve degli indiani d’America o valli di laghi prosciugati. In totale questi dieci campi ospitarono circa 110.000 individui di discendenza giapponese; al loro arrivo, i prigionieri furono colpiti dal filo spinato e dalle guardie armate. I campi furono costruiti in maniera frettolosa: le uniche strutture presenti erano file di baracche organizzate in blocchi e adibite ad abitazioni, oltre ai bagni (più simili a latrine), e altre baracche dedicate ad attività comuni come la mensa e la lavanderia. Le baracche che avrebbero ospitato le famiglie per tre anni erano di dimensioni molto ridotte, ed erano quasi completamente prive di mobilio, all’infuori di brandine militari. Questo portò gli internati, dopo un momento di sconforto iniziale, ad attivarsi per modificare l’ambiente dove erano stati costretti a vivere a tempo indeterminato; utilizzarono così legname e attrezzi lasciati lì dagli operai e ultimarono la costruzione di varie infrastrutture, oltre che del mobilio necessario (tavoli, sedie, mensole e separé per dividere gli ambienti all’interno delle baracche e dei bagni). Appena fu concesso loro il permesso dalla WRA (War Relocation Authority creata per gestire i campi di prigionia), molti iniziarono ad impegnarsi in attività lavorative, talvolta ricompensati da piccole paghe. La maggior parte degli internati veniva dal settore agricolo e quindi, anche all’interno dei campi, si dedicò all’agricoltura per integrare la povera alimentazione offerta dalla mensa; altri, invece, piantarono alberi che dessero sollievo durante le afose giornate estive, altri ancora si dedicarono all’allevamento di maiali e polli. Queste e altre attività (come il giardinaggio) oltre ad abbellire il paesaggio, davano anche la possibilità agli internati di spezzare la monotonia e impegnare le loro giornate. Successivamente vennero organizzate infermerie, scuole, attività ricreative e istituzioni religiose. […]