34.2. LA DISTRUZIONE DELLA RAGIONE
«L’opera lukácsiana di più profonda efficacia politica, questa volta non più in contrasto, bensì in armonia con la politica dell’Internazionale Comunista, è La distruzione della ragione, organica a questa nuova fase tattica dell’Internazionale Comunista, e forse la più poderosa mediazione culturale della nuova politica di alleanze e di unità antifascista del movimento comunista». (G. Vacca, 1971)86
«La propulsione della “guerra giusta”, che scatena un irrazionalismo estremo, portò Lukács a dire, a metà degli anni 50, nell’appendice de La distruzione della ragione, che gli USA avrebbero potuto ricorrere al fascismo o al nazismo, pur di garantire la loro politica ultramonopolista: “La Costituzione degli Stati Uniti fu fin dall’inizio, al contrario di quella tedesca, una Costituzione democratica. E la classe dominante era riuscita, specialmente nel suo periodo imperialista, a mantenere le forme democratiche in modo da preservare, attraverso la legalità democratica, una dittatura del capitale monopolista tanto vigorosa quanto quella ottenuta da Hitler attraverso i suoi procedimenti tirannici. Le prerogative del Presidente degli USA, il potere di decisione della Corte Suprema in materia costituzionale […], il monopolio finanziario sulla stampa, la radio, ecc., gli enormi costi elettorali, che hanno impedito la formazione e il funzionamento di veri partiti democratici insieme ai partiti tradizionali dei monopoli capitalisti, e, infine, l’impiego di metodi terroristi..., tutto ha contribuito ad erigere una macchina ben lubrificata in grado di raggiungere, senza formalmente rompere con la democrazia, tutto ciò a cui aspirava Hitler. A tutto ciò si deve aggiungere la base economica che è incomparabilmente più estesa e più solida negli USA”. Si tratta di un testo premonitore, dato che oggi la politica degli USA ha un evidente senso nazi-fascista (se compresa nell’universo dell’emergente secolo XXI), tipico dell’era irrazionale, dello spettacolo distruttivo e della barbarie». (Ricardo Antunes, 2005)87
Leggiamo alcuni estratti dell'opera per lasciarne trasparire il profumo:
«Ogni atteggiamento pro o contro la ragione è inscindibilmente legato al giudizio che si dà del socialismo. […] Intorno al 1848 ha fatto la sua comparsa l’avversario realmente decisivo della distruzione della ragione: il marxismo; a partire dal 1917 esso non solo si sviluppa fino a diventare la Weltanschauung dei popoli di un sesto della terra, ma si manifesta anche, sotto l’aspetto spirituale, a un grado più alto, come marxismo-leninismo, come ulteriore elaborazione del marxismo nel periodo delle guerre mondiali e delle rivoluzioni mondiali. Il Manifesto comunista era già da molto tempo una delle opere più lette e più tradotte della letteratura mondiale. Dopo il 1917 – oltre alla maggiore diffusione degli scritti di Marx e di Engels – si sono aggiunte le opere di Lenin e di Stalin. Ma il periodo successivo al 1945 porta anche in ciò un cambiamento qualitativo. Vi sono pochi paesi dove le traduzioni e la diffusione di queste opere non siano aumentate in proporzione geometrica. […] Questo rapido incremento si compie molto oltre i limiti del partito. La forza di attrazione del marxismo-leninismo sui più autorevoli intellettuali progressisti cresce sempre di più. Sempre più gli scienziati comprendono quale aiuto può loro offrire il materialismo dialettico, tanto più che esso, nell’Unione Sovietica, proprio mediante la soluzione di problemi scientifici concreti, ha portato a un più alto livello sia la scienza stessa che il suo proprio metodo. Sempre più scrittori ed artisti constatano la stessa cosa per quanto riguarda la loro arte. Perciò le scoperte e i successi dell’Unione Sovietica provocano una così accanita difesa nella scienza e nella filosofia della reazione borghese. […] Si parla molto meno dei problemi in se stessi che delle pretese persecuzioni a cui nell’Unione Sovietica sarebbero esposti gli scienziati non-conformisti, per contrastare così l’attrazione sempre più irresistibile della scienza e dell’arte progressista. […] Gli scopi e le prospettive pratiche del movimento della pace non sono qui in discussione. La sua semplice esistenza ha però un’importanza storica universale per il pensiero umano: la difesa della ragione come movimento di massa. Dopo un secolo di crescente dominio dell’irrazionalismo, la difesa della ragione, la ricostruzione della ragione distrutta, comincia la sua azione vittoriosa nelle masse. Come il movimento della pace mira, sotto l’aspetto politico, a isolare dalle masse, rendendoli così impotenti, i gruppi esigui di numero, ma importanti per l’influsso che esercitano, dei rappresentanti del capitalismo monopolistico, dei militaristi, dei criminali di guerra intellettuali e di fatto, – così questo lato ideologico manifesta la tendenza a privare della loro influenza sul pensiero e sul sentimento dei popoli i fabbricanti di teorie decadenti e irrazionalistiche di ogni genere, di messaggi antirazionali e antiumani. […] Stalin ha chiaramente determinato i limiti che possono essere raggiunti dal movimento della pace. Poiché il suo scopo non può essere quello di abbattere il capitalismo, esso non è in condizione di eliminare la causa fondamentale delle guerre. La sua lotta è rivolta contro le guerre che concretamente si vanno preparando e che esso con grandi prospettive di successo è chiamato a impedire. Marx scriveva più di un secolo fa: “L’arma della critica non può certo sostituire la critica delle armi, la potenza materiale deve essere abbattuta dalla potenza materiale; ma anche la teoria diventa potenza materiale non appena conquista le masse”. Noi marxisti sappiamo che anche in campo filosofico la grande e decisiva battaglia fra la ragione e l’antiragione, fra la dialettica materialistica e l’irrazionalismo, dopo che questa lotta è divenuta da tempo una contesa intorno al marxismo, può essere condotta alla definitiva conclusione vittoriosa solo con la vittoria del proletariato sulla borghesia, con la caduta del capitalismo, con l’edificazione del socialismo. È evidente che tutto questo deve restare del tutto al di fuori degli scopi del movimento della pace. Perciò l’aspirazione, divenuta in esso così potente, a reintegrare la ragione nei suoi diritti, alla restaurazione della ragione, non può, nemmeno sotto l’aspetto ideologico, affrontare la battaglia decisiva. Ma ciò non diminuisce affatto la sua importanza storica universale. Esso […] è la prima grande sollevazione delle masse contro la follia dell’irrazionalità imperialistica. Le masse, combattendo per la ragione, hanno proclamato sulla strada il loro diritto alla condeterminazione del destino del mondo. Esse non rinunceranno più a questo diritto, all’uso della ragione nella loro propria causa, nella causa dell’umanità, al diritto di vivere in un mondo retto dalla ragione e non nel caos della follia guerresca».88
La distruzione della ragione è uno dei grandi capolavori di György Lukács. L'opera, pubblicata nel 1953, formalmente dedicata alla storia del cosiddetto «irrazionalismo» quale componente della «filosofia reazionaria» otto e novecentesca, si configura in verità come un appassionato pamphlet di oltre 800 pagine contro buona parte del pensiero tedesco (e non solo) filosofico contemporaneo. Di fatto una vera e propria “controstoria” della filosofia contemporanea, interpretata secondo la chiave del materialismo dialettico: un'opera utilissima soprattutto per insegnanti, studenti e appassionati di filosofia al fine di avere un punto di vista alternativo e più “pratico” su alcuni degli autori e delle correnti culturali più oscuri della storia recente. Si tratta di un libro imperdibile. La tesi di Lukács è che l'irrazionalismo si sia sviluppato come un percorso inarrestabile e necessario «da Schelling a Hitler». I filosofi e le teorie più variegate – da Schopenhauer a Weber, da Kierkegaard a Nietzsche, da un certo storicismo al neoidealismo, dal pragmatismo all'esistenzialismo – costituirebbero altrettante tappe di questo percorso. Per Lukács le prime tracce di tale tendenza si riscontrano negli intellettuali tedeschi che si oppongono alla ragione illuminista, alla rivoluzione francese e al concetto storico di progresso (Schopenhauer, Schelling, Kierkegaard). È a seguito dei moti del 1848 (con la diffusione del socialismo e lo sviluppo delle idee di Feuerbach, Marx ed Engels) che l'irrazionalismo filosofico comincia a sviluppare idee tendenzialmente antisocialiste, contro il materialismo storico e le analisi dialettiche della società (Nietzsche, la filosofia della vita, Heidegger). Sebbene ogni filosofo irrazionalista mantenga una certa peculiarità di pensiero e svolga la sua attività sempre in un contesto storico-sociale differente, tuttavia è interessante riassumere schematicamente le caratteristiche filosofiche che accomunano tali pensatori:
-svalutazione della ragione e conseguente ripudio o subalternità della scienza;
-gnoseologia aristocratica ed esaltazione acritica dell'intuizione:
«la conoscenza della realtà ultima del mondo non può avvenire attraverso ragionamenti trasparenti e universali ma attraverso intuizioni non comuni o atti interiori di fede»;
-ripudio del processo sociale, creazione di miti e soggettivizzazione della storia:
«La storia non ha leggi razionali che la governano»;
-pessimismo antropologico e apologetica indiretta del capitalismo: essa «mette in rilievo senza riguardo i lati cattivi e gli orrori del capitalismo, ma afferma che essi non sono proprietà specifiche del capitalismo, ma della vita umana, dell'esistenza in generale», «le contraddizioni del proprio contesto economico-sociale sono intrinseche all'inevitabile debolezza della natura umana».
Il carattere teorico più consistente dell'irrazionalismo è probabilmente il suo “intellettualismo”, ossia la tendenza a rifiutare la dialettica quale metodo di soluzione dei problemi e ad astrarre o irrigidire i termini dei problemi medesimi, involgendosi così nei limiti e contraddizioni tipici appunto del pensiero intellettivo.
-svalutazione della ragione e conseguente ripudio o subalternità della scienza;
-gnoseologia aristocratica ed esaltazione acritica dell'intuizione:
«la conoscenza della realtà ultima del mondo non può avvenire attraverso ragionamenti trasparenti e universali ma attraverso intuizioni non comuni o atti interiori di fede»;
-ripudio del processo sociale, creazione di miti e soggettivizzazione della storia:
«La storia non ha leggi razionali che la governano»;
-pessimismo antropologico e apologetica indiretta del capitalismo: essa «mette in rilievo senza riguardo i lati cattivi e gli orrori del capitalismo, ma afferma che essi non sono proprietà specifiche del capitalismo, ma della vita umana, dell'esistenza in generale», «le contraddizioni del proprio contesto economico-sociale sono intrinseche all'inevitabile debolezza della natura umana».
Il carattere teorico più consistente dell'irrazionalismo è probabilmente il suo “intellettualismo”, ossia la tendenza a rifiutare la dialettica quale metodo di soluzione dei problemi e ad astrarre o irrigidire i termini dei problemi medesimi, involgendosi così nei limiti e contraddizioni tipici appunto del pensiero intellettivo.
«L'imbattersi in questi limiti può diventare per il pensiero umano il punto di partenza di un ulteriore sviluppo del pensiero stesso, cioè della dialettica, se si vede in essi un problema da risolvere, e, come Hegel dice molto a proposito, “un cominciamento e un barlume della razionalità”, vale a dire di una più alta conoscenza. L'irrazionalismo invece […] si ferma proprio a questo punto, rende assoluto il problema, irrigidisce i limiti della conoscenza intellettiva facendone i limiti della conoscenza in genere, anzi falsa il problema, reso così insolubile, in una risposta sovrarazionale. Equiparare intelletto e conoscenza, i limiti dell'intelletto coi limiti della conoscenza in generale, far intervenire la “sovrarazionalità” (dell'intuizione, ecc), dove è possibile e necessario procedere oltre una conoscenza razionale: ecco le caratteristiche più generali dell'irrazionalismo filosofico».89
86. G. Vacca, Il politico e l'ideologo, cit.
87. R. Antunes, L’umanità nel secolo XXI: distruzione o emancipazione, Proteo, n° 2, 2005.
88. G. Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, pp. 767, 855-856, 860-861.
89. Sintesi di D. Fusaro (a cura di), György Lukács, Filosofico.net e di Wikipedia, György Lukács, cap. La distruzione della ragione.