2.10. LA POLITICA ESTERA: INTERNAZIONALISMO E DIFESA DELL'URSS
«Lo sciovinismo e la preparazione della guerra come elementi fondamentali della politica estera; la repressione contro la classe operaia e il terrore nel campo della politica interna, come mezzo indispensabile per il rafforzamento delle retrovie dei futuri fronti di guerra – ecco che cosa preoccupa oggi particolarmente gli uomini politici imperialisti dei nostri giorni. Non c'è da stupirsi che il fascismo sia diventato oggi l'articolo più di moda fra gli uomini politici della borghesia guerrafondaia. Non parlo soltanto del fascismo in generale, ma prima di tutto del fascismo di tipo tedesco, che erroneamente vien chiamato nazional-socialismo, perché il più minuzioso degli esami non lascia scoprire in esso neppure un atomo di socialismo. In rapporto a ciò, la vittoria del fascismo in Germania non dev'essere soltanto considerata come un segno di debolezza della classe operaia e come il risultato del tradimento della classe operaia da parte della socialdemocrazia che ha aperto la strada al fascismo. Essa dev'essere anche considerata come un segno della debolezza della borghesia, come un segno del fatto che la borghesia non è più in grado di dominare coi vecchi metodi del parlamentarismo e della democrazia borghese e si vede perciò costretta a ricorrere nella politica interna a metodi di governo terroristici, come un segno del fatto che essa non è più in grado di trovare una via d'uscita dalla situazione attuale sulla base d'una politica estera di pace ed è perciò costretta a ricorrere a una politica di guerra. Tale è la situazione. Come vedete, si va verso una nuova guerra imperialista, come via d'uscita dalla situazione attuale».(Stalin, dal Rapporto al XVII Congresso del Partito; 26 gennaio 1934)104
Il fondamento primo che guida le scelte strategiche di politica estera dell'URSS, il cui indirizzo di fondo è da attribuire alla vittoria politica di Stalin sull'opposizione di Trockij (il cui intento si potrebbe invece riassumere nel mettere tutte le risorse disponibili dell'URSS al servizio della lotta internazionalista, nell'ottica di esportare le rivoluzioni con ogni mezzo politico e militare possibile) è la tutela della propria indipendenza e salvaguardia. È cioè una «politica della sicurezza», per riprendere l'espressione usata da Canfora105. Questa viene ritenuta premessa indispensabile per poter sostenere nella dimensione di volta in volta ritenuta politicamente più adeguata le lotte internazionaliste, antimperialiste, anticolonialiste e antifasciste. Nell'ottica di Stalin quindi viene prima il rafforzamento dell'URSS, mentre il Comintern (1919-43) prima, il Cominform (1947-56) poi, sono strumenti che devono svolgere il loro compito tenendo in primo luogo conto di questo assunto di base. Hobsbawm afferma che «ogni rivoluzione diventò tollerabile solo se a) non entrava in conflitto con gli interessi dello stato sovietico; b) poteva essere condotta sotto il diretto controllo sovietico», ma anche che l'URSS rimase
«qualcosa di più di una semplice superpotenza tra le altre. L'emancipazione universale, la costruzione di un'alternativa migliore alla società capitalistica erano, dopo tutto, le ragioni fondamentali della sua esistenza. Per quale altro motivo gli impassibili burocrati moscoviti avrebbero dovuto continuare a finanziare e ad armare il movimento di guerriglia dell'African National Congress (alleato con i comunisti), le cui possibilità di rovesciare il sistema dell'apartheid in Sudafrica rimasero per decenni minime?»106
Questa linea prevedeva quindi una netta subordinazione di questi organismi (cui si dovevano attenere le organizzazioni politiche e sindacali a loro affiliate) al principio della realpolitik sovietica, a sua volta condizionata nel periodo in questione dallo stato d'eccezione. Ciò ha portato a svolte repentine e in alcuni casi clamorose, la maggiore delle quali è senz'altro il noto patto di non aggressione con la Germania nazista del 1939. Dopo il III congresso del Comintern (1921) si era progressivamente affermata la politica del fronte unico, con la quale si ricercava un'unità d'azione tra partiti comunisti e socialisti, ritenuta utile tatticamente per rafforzare le organizzazioni comuniste (il che doveva avvenire attraverso lo svuotamento di quelle socialdemocratiche) in previsione dei possibili esiti rivoluzionari. Dal 1928 al 1934 la linea decretata dal Comintern muta verso la teoria del “socialfascismo”, per la quale qualunque entità statale riconducibile in qualche maniera al capitalismo era un nemico dell'URSS, e come tale di tutti i comunisti. Di qui l'equiparazione tra i governi liberali della Francia e della Gran Bretagna con l'Italia fascista. Sul piano dei rapporti interni ai partiti comunisti occidentali ciò prevedeva anche un giudizio netto sulle forze socialdemocratiche, giudicate serve del capitalismo al pari dei gruppi fascisti107.
Nel 1926-27 l'ascesa al potere di Pilsudski in Polonia preoccupò particolarmente la leadership sovietica per il rischio del rinnovarsi di un conflitto finito solo pochi anni prima; il pericolo maggiore percepito era però quello britannico con cui ci furono in questo periodo molteplici tensioni. Le prime preoccupazioni erano sorte d'altronde già nel 1925 in seguito alla stipula del trattato di Locarno che riavvicinava Francia e Germania, spingendo personalità come Kamenev e Zinov'ev a denunciare il pericolo di aggressione che si andava profilando108. Dal 1931 si affacciò anche il pericolo imperialista giapponese, con l'espansione nella confinante Manciuria. L'avvento al potere di Hitler in Germania nel 1933 creò i presupposti per la svolta del regime, che in seguito ai segnali espliciti di volontà espansionistica verso est tentò una strategia diversa, proponendo dal 1935 la politica dei fronti popolari109. Questi consentirono la vittoria di coalizioni di sinistra in Francia e in Spagna, facendo dei comunisti, che dei fronti popolari erano gli animatori, i più conseguenti avversari del fascismo, e dell'URSS «l'unico sicuro baluardo nella lotta contro il nazifascismo»110. Lo scenario spagnolo divenne, con lo scoppio della guerra civile, il banco di prova della seconda guerra mondiale ormai imminente. Da un lato la rivolta militare di Franco, appoggiata militarmente dai nazifascisti, dall'altra il tentativo di difesa e supporto della Repubblica attuato unicamente dall'URSS, grazie anche all'impegno promosso per promuovere le Brigate Internazionali. Nonostante numerose sollecitazioni di intervento, sia la Francia che l'Inghilterra ritennero di non interferire nel conflitto, spaventate sia dalla possibilità di creare un motivo di tensione con la Germania (verso cui vigeva la linea conciliante dell'appeasement) sia dal timore di una radicalizzazione politica dell'eventuale vittoria dei repubblicani, che avrebbe potuto dare luogo a contagi rivoluzionari nei loro paesi111.
Nel 1926-27 l'ascesa al potere di Pilsudski in Polonia preoccupò particolarmente la leadership sovietica per il rischio del rinnovarsi di un conflitto finito solo pochi anni prima; il pericolo maggiore percepito era però quello britannico con cui ci furono in questo periodo molteplici tensioni. Le prime preoccupazioni erano sorte d'altronde già nel 1925 in seguito alla stipula del trattato di Locarno che riavvicinava Francia e Germania, spingendo personalità come Kamenev e Zinov'ev a denunciare il pericolo di aggressione che si andava profilando108. Dal 1931 si affacciò anche il pericolo imperialista giapponese, con l'espansione nella confinante Manciuria. L'avvento al potere di Hitler in Germania nel 1933 creò i presupposti per la svolta del regime, che in seguito ai segnali espliciti di volontà espansionistica verso est tentò una strategia diversa, proponendo dal 1935 la politica dei fronti popolari109. Questi consentirono la vittoria di coalizioni di sinistra in Francia e in Spagna, facendo dei comunisti, che dei fronti popolari erano gli animatori, i più conseguenti avversari del fascismo, e dell'URSS «l'unico sicuro baluardo nella lotta contro il nazifascismo»110. Lo scenario spagnolo divenne, con lo scoppio della guerra civile, il banco di prova della seconda guerra mondiale ormai imminente. Da un lato la rivolta militare di Franco, appoggiata militarmente dai nazifascisti, dall'altra il tentativo di difesa e supporto della Repubblica attuato unicamente dall'URSS, grazie anche all'impegno promosso per promuovere le Brigate Internazionali. Nonostante numerose sollecitazioni di intervento, sia la Francia che l'Inghilterra ritennero di non interferire nel conflitto, spaventate sia dalla possibilità di creare un motivo di tensione con la Germania (verso cui vigeva la linea conciliante dell'appeasement) sia dal timore di una radicalizzazione politica dell'eventuale vittoria dei repubblicani, che avrebbe potuto dare luogo a contagi rivoluzionari nei loro paesi111.
In questo periodo Stalin tentò ripetutamente di stabilire un'alleanza con le potenze liberali in un'ottica anti-nazista, ma i continui rifiuti ricevuti, oltre al mancato invito alla conferenza di Monaco del 1938, con cui si spalancavano le porte di un'ulteriore espansionismo a est di Hitler, vennero intesi come un'evidente volontà di lasciare campo libero alla Germania per portare a termine la ricerca del proprio lebensraum (spazio vitale) attraverso il progetto di sottomissione degli slavi e di distruzione dell'URSS comunista. Il patto Molotov-Von Ribbentrop, siglato il 23 agosto 1939, una settimana prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, fu dunque un passaggio tattico che si cercò di evitare fino all'ultimo momento, motivato in primo luogo dal rifiuto di Francia e Inghilterra di pervenire ad un'unità d'azione con l'URSS. Il fatto che tale patto fosse un compromesso temporaneo e tattico, invece di una salda intesa strategica di lungo termine, era una ovvietà sia per la Germania che per l'URSS. I primi, dopo aver recuperato gli ambiti territori polacchi a lungo rivendicati, avrebbero potuto concentrare l'attenzione sul fronte occidentale per costringere gli anglo-francesi ad un ragionevole accordo di pace. I secondi avrebbero potuto consolidare i propri confini occidentali (attraverso l'occupazione strategica della Finlandia, delle repubbliche baltiche e di parte della Polonia) in vista della guerra imminente. A Stalin premeva inoltre guadagnare tempo per riorganizzare gli stati maggiori dell'esercito decimati soltanto due anni prima del corso delle Grandi Purghe112. Anche sull'attacco tedesco del 1941 e sulle capacità di Stalin di gestire la difesa si è parlato in lungo e in largo a sproposito. Oggi i documenti attestano la bontà delle principali scelte strategiche stabilite dal leader che teneva a partecipare alle decisioni militari in prima persona e seppe condurre la campagna militare in maniera salda e priva di cedimenti psicologici113.
L'esito vittorioso della guerra, raggiunto al prezzo di circa 27 milioni di morti sovietici, fu per Stalin e il suo gruppo dirigente la dimostrazione della bontà delle linee strategiche generali seguite nel ventennio precedente (dalla costruzione dello stato sovietico alla pianificazione industrializzata, dalla collettivizzazione/pacificazione della campagne alla repressione dell'opposizione politica che vedeva nell'aggressione nazista una possibilità per rovesciare il regime staliniano e riprendere il potere114) e della visione fondata sull'ideologia marxista del materialismo storico con cui si interpretava la realtà (sia geopolitica globale che locale) sull'assunto della lotta di classe. È curioso che personalità come Thomas Mann, Benedetto Croce, Norberto Bobbio, Winston Churchill, Alcide De Gasperi e tanti altri gli riconobbero meriti enormi soprattutto sul primo aspetto, ammettendo talvolta anche la validità metodologica e interpretativa dell'approccio ideologico che aveva guidato quelle azioni115. L'URSS che usciva dal conflitto bellico, pur essendo vittoriosa e avendo ottenuto lo status di superpotenza mondiale, era un paese assai provato dalle distruzioni subite, sia sul piano umano che economico. In questa situazione caddero dal cielo le bombe atomiche americane su un Giappone ormai palesemente privo di prospettive di successo. La storiografia è ancora divisa sul reale intento che si proponeva di ottenere il presidente Truman con le dimostrazioni di forza date a Hiroshima e Nagasaki.
Quel che è certo è che uno Stalin esacerbato e provato da una guerra durissima per il suo popolo, interpretò quell'evento come una dichiarazione neanche troppo velatamente minacciosa di superiorità militare e tecnologica rivolta all'URSS dall'altra grande superpotenza rimasta a contenderle l'egemonia globale. La conseguenza a livello di politica estera fu una chiusura a riccio delle conquiste militari ottenute nell'avanzata europea. La diffidenza reciproca tra Stalin e Truman (che era assai meno dialogante e collaborativo di Roosevelt) portò alla rigida spartizione del mondo per sfere di influenza. L'Europa, divisa in due dalla nota “cortina di ferro” si divise tra chi fu sottomesso alla Nato e chi alle democrazie popolari, strutturate in maniera ferrea ad imitazione del modello sovietico, e del Comecon (1949), che diventò anch'esso uno strumento al servizio della politica economica sovietica. Di fatto le premesse della guerra fredda stavano già nella torrida estate del 1945 (non a torto, se si pensa che «lo stato maggiore delle forze armate americane aveva elaborato un piano per bombardare con armi nucleari le venti più grandi città sovietiche entro dieci settimane dalla fine della guerra»116), ed ebbero come conseguenza la consapevolezza per Stalin che lo stato d'eccezione doveva continuare a tempo indefinito (finché non ci sarebbe stata la parità atomica? Oppure fino a che non fosse trionfata la rivoluzione su tutto il globo? Difficile dirlo), con quel che ciò significava in termini di accentuazione delle purghe e di ripristino di un rigido controllo sociale utile a garantire un rapido sviluppo industriale “pesante” e tecnologico. Bisognava ricostruire un Paese semidistrutto e attrezzarlo per la nuova sfida alla propria sopravvivenza imposta dal nuovo grande nemico: l'imperialismo americano. Il dato centrale che emerge da questa rapida rassegna è che la politica estera dall'URSS, dopo un breve interludio (non privo peraltro di tensioni) tra il 1922 e il 1925-26 (non a caso gli anni della NEP), è stata segnata da un costante pericolo (con diversi gradi di intensità: massima a partire dal 1936 al 1945) dal 1926 al 1953, determinante per il mantenimento di uno stato d'eccezione permanente, concausa preponderante (ma non esclusiva) delle politiche interne decise dal gruppo dirigente sovietico e da Stalin.
Quel che è certo è che uno Stalin esacerbato e provato da una guerra durissima per il suo popolo, interpretò quell'evento come una dichiarazione neanche troppo velatamente minacciosa di superiorità militare e tecnologica rivolta all'URSS dall'altra grande superpotenza rimasta a contenderle l'egemonia globale. La conseguenza a livello di politica estera fu una chiusura a riccio delle conquiste militari ottenute nell'avanzata europea. La diffidenza reciproca tra Stalin e Truman (che era assai meno dialogante e collaborativo di Roosevelt) portò alla rigida spartizione del mondo per sfere di influenza. L'Europa, divisa in due dalla nota “cortina di ferro” si divise tra chi fu sottomesso alla Nato e chi alle democrazie popolari, strutturate in maniera ferrea ad imitazione del modello sovietico, e del Comecon (1949), che diventò anch'esso uno strumento al servizio della politica economica sovietica. Di fatto le premesse della guerra fredda stavano già nella torrida estate del 1945 (non a torto, se si pensa che «lo stato maggiore delle forze armate americane aveva elaborato un piano per bombardare con armi nucleari le venti più grandi città sovietiche entro dieci settimane dalla fine della guerra»116), ed ebbero come conseguenza la consapevolezza per Stalin che lo stato d'eccezione doveva continuare a tempo indefinito (finché non ci sarebbe stata la parità atomica? Oppure fino a che non fosse trionfata la rivoluzione su tutto il globo? Difficile dirlo), con quel che ciò significava in termini di accentuazione delle purghe e di ripristino di un rigido controllo sociale utile a garantire un rapido sviluppo industriale “pesante” e tecnologico. Bisognava ricostruire un Paese semidistrutto e attrezzarlo per la nuova sfida alla propria sopravvivenza imposta dal nuovo grande nemico: l'imperialismo americano. Il dato centrale che emerge da questa rapida rassegna è che la politica estera dall'URSS, dopo un breve interludio (non privo peraltro di tensioni) tra il 1922 e il 1925-26 (non a caso gli anni della NEP), è stata segnata da un costante pericolo (con diversi gradi di intensità: massima a partire dal 1936 al 1945) dal 1926 al 1953, determinante per il mantenimento di uno stato d'eccezione permanente, concausa preponderante (ma non esclusiva) delle politiche interne decise dal gruppo dirigente sovietico e da Stalin.
104. J. Stalin, Opere Scelte, cit. pp. 826-827.
105. L. Canfora, Da Stalin a Gorbacev: come finisce un impero, all'interno di D. Losurdo, Stalin, cit. p. 329.
106. E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit. pp. 90-95.
107. Vi si trova espressamente «la tesi che fa della socialdemocrazia l'ala sinistra del fascismo»; su questa parte del fronte unico e del socialfascismo si veda M. Hajek, La discussione sul fronte unico e la rivoluzione mancata in Germania, all'interno di A.V., Storia del marxismo, cit. pp. 458-463; Hobsbawm descrive criticamente questa strategia come «retorica ultrarivoluzionaria e settarismo», in E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit. p. 90-91.
108. Su questi dati e sull'importanza degli sviluppi internazionali in relazione alla decisione di intensificare lo sviluppo dell'industria pesante per armare il Paese si soffermano D. Losurdo, Stalin, cit. pp. 129-130 e A. Graziosi, L'URSS di Lenin e Stalin, cit. pp. 226-227.
109. La consapevolezza del pericolo nazista era quindi ben chiara al gruppo dirigente sovietico fin dalle prime fasi dell'ascesa di Hitler, come attesta Andrea Graziosi Ivi, p. 398.
110. Ivi, pp. 406-407; non tutti però erano d'accordo con questa visione, come emerge ad esempio da A. Panaccione, Socialisti europei. Tra guerre, fascismi e altre catastrofi (1912-1946), FrancoAngeli, Milano 2000, pp. 165-188.
111. E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., pp. 189-194.
112. Sulla situazione complessiva dell'URSS tra le grandi purghe e il '39 vd A. Graziosi, L'URSS di Lenin e Stalin, cit. pp. 427-435; sulla spiegazione approfondita delle motivazioni sul patto e sul rapporto tra URSS e Germania nel periodo 1933-1941 vd D. Losurdo, Stalin, cit. pp. 178-187, da mettere a confronto con E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit. pp. 182-189, 197-198.
113. Chiarite in maniera inoppugnabile alla luce degli archivi segreti sovietici in Z. A. Medvedev & R. A. Medvedev, Stalin sconosciuto, cit. pp. 245-287.
114. D. Losurdo, Stalin, cit. pp. 82-88, 256.
115. Ivi, pp. 11-20, 271-272.
116. Citato da E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit. p. 275.