21 Novembre 2024

14. L'URUGUAY E I TUPAMAROS

Rispondendo alla domanda se sia possibile eliminare la globalizzazione: «No, non è possibile. Sarebbe come essere contrari al fatto che agli uomini cresce la barba. Ma quella che abbiamo conosciuto finora è soltanto la globalizzazione dei mercati. Che ha come conseguenza la concentrazione di ricchezze sempre maggiori in pochissime mani. E questo è molto pericoloso. Genera una crisi di rappresentatività nelle nostre democrazie perché aumenta il numero degli esclusi. Se vivessimo in maniera saggia, i sette miliardi di persone nel mondo potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno. Il problema è che continuiamo a pensare come individui, o al massimo come Stati, e non come specie umana». (José Mujica, presidente dell'Uruguay in carica dal 1º marzo 2010 al 1º marzo 2015)102
A differenza degli altri paesi latino-americani, la situazione politico-economica in Uruguay, dall’inizio del secolo fino alla prima metà degli anni Cinquanta, è caratterizzata da una solida tradizione parlamentare e da uno stato di relativo benessere; il paese è stato perfino definito la Svizzera d’America. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, in concomitanza con una serie di catastrofi naturali e con la fine del boom delle esportazioni (di cui l’agricoltura, asse portante dell’economia uruguayana, aveva potuto approfittare nel corso dei due conflitti mondiali e della guerra di Corea), il paese entra in una profonda crisi strutturale che si accelera progressivamente nel decennio successivo. Nel giro di pochi anni la disoccupazione aumenta drammaticamente ed i salari reali si abbassano fino a toccare il minimo storico nel 1968, con il potere d’acquisto calato del 50%.
Contemporaneamente l’influenza degli Stati Uniti si rafforza fino a raggiungere tutti i settori della società uruguayana (economico, politico, militare, culturale).103
L'Office of Public Safety (OPS) è controllato dalla CIA e entra formalmente in funzione dal 1965, con i consueti compiti di fornire addestramento, equipaggiamento e armi alla polizia locale. Come ricorda Blum, quattro anni dopo il governo
«aveva un particolare bisogno dei servizi dell'OPS. Il paese si trovava nel bel mezzo di un prolungato declino economico, la prosperità e la democrazia, un tempo strombazzate, stavano rapidamente affondando ai livelli dei vicini paesi latinoamericani. Scioperi, manifestazioni studentesche e violenze di piazza erano diventati negli ultimi anni eventi normali. E ancor più preoccupanti, per le autorità uruguaiane, erano quei rivoluzionari che si erano dati il nome di Tupamaros, forse la più abile, ingegnosa e sofisticata organizzazione di guerriglia urbana [derivante dal fatto che il paese non avesse né montagne né foreste amazzoniche, ndr] che il mondo abbia visto: i Tupamaros avevano un tocco particolare nel catturare l'immaginazione pubblica con azioni spericolate, conquistando le simpatie con una filosofia da Robin Hood. Avevano membri e partigiani clandestini che ricoprivano posizioni chiave nel governo, nelle banche, nelle università, nelle professioni e anche tra i militari e la polizia. “A differenza di altri gruppi guerriglieri dell'America Latina”, scriveva il New York Times nel 1970, “normalmente i Tupamaros evitavano, se possibile, lo spargimento di sangue. Cercavano invece di creare imbarazzo al governo e un disordine generale”. Una delle loro tattiche preferite era compiere incursioni negli archivi di grandi aziende private per rendere pubbliche la corruzione e la disonestà ad alto livello, oppure rapire una figura di primo piano e portarla dinanzi a un “tribunale del popolo”. Era una cosa che colpiva molto, scegliere un farabutto, le cui azioni erano andate impunite per la legge, i tribunali e la stampa, costringerlo a un dettagliato e stringente interrogatorio e poi rendere pubblici i risultati dell'interessante dialogo. Una volta si introdussero in un esclusivo e lussuosissimo night club e tracciarono sulle pareti quello che è il loro slogan più famoso: “O bailan todos, o no baila nadie”, o ballano tutti o non balla nessuno».104
Il Movimiento de liberación nacional (MLN) dei Tupamaros nasce nel 1963 come organizzazione organicamente indipendente dai partiti della sinistra uruguayana:
«[Il MLN] nacque in seno al movimento sindacale uruguayano e ai partiti della sinistra. Il nostro paese eredita dal passato un solido movimento sindacale con una vecchia e autentica tradizione classista. […] [Esso] è prodotto esclusivo delle classi lavoratrici, si è sviluppato e rinsaldato in una lotta continua e coerente dagli inizi del secolo … in mezzo ad ardue lotte e sacrifici. Ecco una caratteristica peculiare. Nel nostro movimento, formato originariamente da membri del movimento sindacale, noi abbiamo ricevuto quella eredità».105
Riferendosi all’affermazione di Guevara, per cui in America Latina le condizioni oggettive siano le stesse dappertutto, i Tupamaros sostengono che anche in Uruguay, sebbene «la mano dell’imperialismo [sia] più occulta», sussistano le medesime condizioni del resto dell’America Latina: «C’è molta disoccupazione, gli alloggi scarseggiano, la terza parte delle terre coltivabili è in mano a 600 famiglie, […] la percentuale della mortalità infantile […] è assai elevata: manca l’assistenza medica; insomma il medesimo panorama… a cui si riferiva il Che». In tali condizioni, l’unica via d’uscita è la rivoluzione socialista, che avrebbe portato un cambiamento profondo di tutte le strutture:
«Era necessario creare un detonatore che aprisse una via d’uscita, una strada rivoluzionaria verso un cambio di strutture. Nello scegliere la strada della lotta armata, pensammo che era l’unica via valida per togliere dal potere quelli che sono disposti a mantenerlo con le armi, quando lo considerano minacciato dalle classi che stanno opprimendo».106
In questo clima la CIA invia Dan Mitrione, specialista in tecniche di tortura, per addestrare i militari e la polizia ad estorcere confessioni ai Tupamaros. Manuel Hevia Cosculluela, un cubano al soldo della CIA, è un testimone di questo addestramento, che inizia con una descrizione dell'anatomia umana e del sistema nervoso: «I primi ad essere sottoposti alle dimostrazioni furono dei mendicanti […] presi nei sobborghi di Montevideo, e anche donne, a quanto pare dalla zona di frontiera con il Brasile. Non ci fu interrogatorio, solo una dimostrazione degli effetti di differenti voltaggi su differenti parti del corpo umano, così come degli effetti di un farmaco che induce il vomito […] e un'altra sostanza chimica. Quattro di loro morirono». Hevia afferma pubblicamente che Mitrione, capo dell'OPS locale, «torturò personalmente a morte con scariche elettriche quattro mendicanti». Mitrione ha poi spiegato al cubano la sua filosofia dell'interrogatorio, che consiste nell'iniziare con un «periodo di ammorbidimento, con le solite percosse accompagnate da insulti». Lo scopo è «umiliare il prigioniero, fargli prendere coscienza del fatto che non ha scampo, e tagliarlo fuori dalla realtà. Niente domande, solo botte e insulti. Poi solo percosse, in silenzio». Solo dopo viene l'interrogatorio, in cui il dolore deve essere conferito solo dallo strumento usato: «L'esatto dolore, nel punto esatto, nella quantità esatta, per l'effetto desiderato», questo è il motto di Mitrione. «Bisogna sempre lasciargli qualche speranza […] un lontano barlume». «Quando si è ottenuto ciò che si vuole, e io lo ottengo sempre può esser bene prolungare la seduta con un altro po' di ammorbidimento. Non per ottenere informazioni, ma solo come misura politica, per creare una salutare paura di immischiarsi in attività sovversive». Hevia poco tempo dopo questa conversazione rivela tali dettagli pubblicamente a L'Avana: è un agente cubano che faceva il doppio gioco. Circa sei mesi dopo, il 31 luglio 1970, «Dan Mitrione fu rapito dai Tupamaros. Non lo torturarono. Richiesero la liberazione di 150 prigionieri in cambio della sua libertà. Con il sostegno determinante dell'amministrazione Nixon, il governo uruguaiano rifiutò. Il 10 agosto il corpo senza vita di Mitrione fu rinvenuto sul sedile posteriore di un'auto rubata». Il portavoce della Casa Bianca, Ron Ziegler, afferma solennemente che «la devozione del signor Mitrione al servizio della causa del progresso pacifico in un mondo ordinato rimarrà un esempio per gli uomini di ogni paese». Poco tempo dopo cala anche sull'Uruguay la coltre di una durissima e sanguinosa dittatura militare che durerà fino al 1985. È la fine dei Tupamaros: molti vengono imprigionati, torturati e uccisi (tale è la direttiva inviata dagli Stati Uniti).107 I leader vengono tenuti come ostaggi con la minaccia di esecuzione istantanea nel caso avvengno ulteriori azioni di guerriglia. Stroncata la lotta interna, i guerriglieri sulla via dell'esilio spostano l'azione sul campo della politica con denunce pubbliche della situazione esistente nel loro paese. Nel 1985, con il ritorno della democrazia, partecipano alla vita politica con il MLN. Nel 2004 due antichi militanti Tupamaros, José Mujica e Nora Castro, sono nominati Ministro dell'Allevamento dell'Agricoltura e della Pesca e presidente della Camera dei Deputati. Il 30 novembre 2009 José Mujica è eletto presidente dell'Uruguay. Ha alle spalle 12 anni di carcere per l'attività guerrigliera svolta tra fine anni '60 e inizio anni '70.
102. O. Ciai, Mujica e “l'apologia della sobrietà”: “Chi accumula denaro è un malato. La ricchezza complica la vita”, La Repubblica (web), 6 novembre 2016.
103. Per un quadro politico-economico dell’Uruguay dall’indipendenza agli anni Sessanta si veda A. Labrousse, I Tupamaros. La guerriglia urbana in Uruguay, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 9-30; V. Parlato, Prefazione a M. E. Gilio, Guerriglia tupamara, Bertani, Verona 1972, pp. 11-24. Questa e altre citazioni sono riportate nel seguente articolo corredato di fonti storiografiche: La guerriglia urbana dei Tupamaros, Maddalenarobinblog.wordpress.com, 17 settembre 2013.
104. W. Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, cit., pp. 299-300.
105. A.V., I Tupamaros in azione. Testimonianze dirette dei guerriglieri, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 232-233.
106. M. E. Gilio, Guerriglia tupamara, cit., pp. 250-251.
107. W. Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, cit., pp. 301-306.

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